Dalla Juventus dei grandi nomi (uno su tutti: Platini), alla Juve operaia, sacchiana, forse francescana. Sì, francescana nel senso del motto “ora e labora”, una frase magari non citata direttamente da Antonio Conte – il tecnico di questo bellissimo scudetto, che per gli annali è il numero 28 mentre per la società e per i tifosi, che non accettano la decurtazione dei due tolti per le vicende di Calciopoli, è il trentesimo – ma di sicuro presente nelle opere e nei fatti quotidiani. Racconta chi lo conosce a fondo che questo 43enne di Lecce, come calciatore già una “presenza” bianconera fin dai giorni trapattoniani, non smette di pensare al calcio nemmeno per un minuto, quando è in servizio permanente ed effettivo (cioè nel corso della stagione, ma forse anche dopo, quando la mente di un tecnico frulla per pensare al campionato successivo). Dunque, lavora ventiquattro ore su ventiquattro e si porta perfino il lavoro a casa, dove probabilmente non potrebbe entrare senza la comprensione della compagna Elisabetta e della figlia Vittoria, che Antonio giura di non aver chiamato così per via del suo pensiero fisso.
Già, la vittoria. Come ogni “guru” dello sport, anche Conte era l’unico che la immaginava possibile. Salvo fissare il punto di partenza di questa avventura, che ha permesso alla Vecchia Signora di cancellare i recenti brutti ricordi (e umiliazioni di sicuro eccessive), nel low profile e nelle forti motivazioni. Diceva, l’estate scorsa: “Voglio che la mia squadra abbia l’umiltà e la cattiveria di una provinciale. Deve correre più degli altri, deve avere la bava alla bocca, ma deve anche possedere la qualità di un gruppo importante”.
La Juventus edizione 2011-2012 è stata una sintesi mirabile di questo pensiero, soprattutto grazie a quel “mangiare l’ erba” ripetuto in più di una occasione. Conte è stato, come quelli che vincono, un allenatore di lotta (contro gli arbitri, spesso) e di governo (lo si è visto nel modo in cui ha tenuto in mano la truppa, in particolare nel passaggio a vuoto del periodo gennaio-febbraio). Il segreto del suo successo è stato far accettare il suo perfezionismo maniacale, la sua idea dell’applicazione, mentale e fisica, ai giocatori ai quali riservava vere terapie di gruppo, come ha dimostrato una volta un “fuori onda” televisivo. Come tecnico, poi, ha dimostrato una qualità in più, non sempre presente in tutti i colleghi (compresi quelli di altissimo lignaggio): la flessibilità. Partito con l’idea del 4-2-4, è approdato addirittura al 3-5-2, con il 4-3-3 quale tappa di passaggio. Non è un fatto da poco. Rigido e rigoroso da un lato, duttile dall’altro: un gran bell’esempio. E poi, quanta autorevolezza e serenità nel disegnare un approccio “casto” alla possibilità di ricucire sulla maglia il fatidico tricolore.
Prima dell’incontro con la Lazio, dopo il controsorpasso del Milan, vincitore a Verona sul Chievo, Conte ha spiegato alla perfezione come ci si rapporta con la pressione (quanti avrebbero accettato, a quel punto, un risultato bello ma dimezzato quale un secondo posto?), con l’idea del successo (sempre presente, altrimenti meglio cambiare mestiere) e con i piani della missione: “Abbiamo sempre giocato con l’ obbligo di vincere, tre settimane fa siamo scesi in campo a sette punti di distanza dal Milan e sarà così anche questa volta. Questo fa parte del nostro processo di crescita e grazie a questa mentalità siamo diventati l’ antagonista del Milan. Ma è inutile adesso parlare di percentuali scudetto o usare questa parola. Dobbiamo giocarci tutte le nostre carte senza avere rimpianti poi vedremo se saremo stati capaci di raggiungere un obiettivo che sarebbe magico. La società a inizio anno mi ha chiesto di provare a rientrare in Champions: penso che siamo riusciti a fare un lavoro straordinario e il risultato finale non dovrà inficiare su niente. Poi, è ovvio, se si vuole entrare nella storia, bisogna vincere…”. Il bello è che ci è riuscito… Lui e i suoi ragazzi.
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