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Attualità

CURA DI SÉ E DEGLI ALTRI

LUCA COTTINI - 25/02/2022

gpDi tutte le espressioni inglesi che aveva imparato nei suoi viaggi in America per venire a trovarmi, quella che aveva più cara era “take care”. “Abbi cura di te”. Per mio padre quello non era solo un modo cordiale di congedarsi ma un vero e proprio modo di essere. “Care” per lui voleva dire attenzione, dedizione, studio appassionato e zelante, ma soprattutto “cura”, sia con l’accezione di guarigione che di affetto, sollecitudine e pienezza gioiosa. In questo suo modo lieto di salutare trovava espressione l’esperienza di “cura” che gli anni della malattia hanno portato alla maturità piena. Come amava ripetere usando la parola latina “salus” non c’è “salute” senza “salvezza”, non c’è cura medica che non sia cura per il compimento o il benessere integrale della persona.

Mio padre ci ha lasciato due anni fa, in punta di piedi qualche giorno prima che l’ondata della pandemia ci travolgesse tutti. Non ha visto quello che ha sconvolto il nostro mondo, ma in quel suo “care” – in quella sua straordinaria cura verso di sé e verso gli altri – ancora oggi dona con la sua testimonianza una prospettiva nuova e gentile su come affrontare questi nostri tempi strani. GP era filosofo, e da vero amante della sapienza, non è difficile ricordare, per me come per tanti, la libertà estrema che aveva nel fare di tutto oggetto di ricerca, dialogo, investigazione, pensiero. In questo suo fare lo animava la maieutica di Socrate ma soprattutto l’esperienza paolina di “vagliare tutto e trattenere ciò che è buono”. Ma, se posso aggiungere ora, la sua nota più straordinaria è emersa invece quando, dentro il campo noto delle idee, che dominava con lucidità e versatilità, gli è piombata addosso la “questione del corpo”. L’affare del corpo, come amavamo chiamarlo, quello che Nietzsche chiamava la Grande Ragione.

Cos’è il corpo? Cosa ha a che fare il corpo con la nostra salvezza? Questo certo era un tema che lo appassionava, come testimoniato dal suo impegno nella bioetica e dalla passione con cui esplorava il mistero della sessualità umana (con una chiarezza e bellezza che non ho visto fare a nessun altro). Ma dopo che il Parkinson lo aveva “visitato” (come era solito dire), ora che aveva chiamato proprio lui, queste sono domande sono diventate il cuore di un dramma sperimentato, di un corpo a corpo filosofico ed esistenziale con il Mistero ultimo della vita.

Papà aveva scritto e insegnato dell’etica della cura, ma è stato il suo corpo fragile a insegnarci veramente cos’è la cura, quale “care” sia necessario a non soccombere alla malattia. Nella sua debolezza emerge la sua vera forza. Anche con mano tremante non ha mai smesso di scrivere, vincendo la paura di lasciare errori di battitura, di non mostrarsi impeccabile. Anche quando era venuta meno la sua missione di insegnante, non ha smesso di seguire una regola di fede per vivere le giornate. Pregare, camminare, ascoltare musica, leggere, riposare, si era scritto un piano per le sue giornate, come a dirsi a ogni istante: non devo dimenticarmi chi sono, non devo perdere la cura di me, non devo cedere alla tentazione di abbandonarmi, non devo smettere di guardare con zelo ciò che mi circonda, anche al mio corpo o alla mia memoria che rispondono sempre meno. Perché, gli risento dire oggi in quelle note, la salvezza non è là fuori (quando tutte le circostanze saranno a posto) e la salute non è solo un corpo che funziona, ma “salus” è stare bene, sapere che siamo al mondo per un motivo, che tutto in fondo ha un senso buono.

Non basterebbe una vita a raccontare di mio padre e invito chiunque a conoscere il suo pensiero (condividendo i ricordi o leggendo i libri che ha lasciato), ma in questa sede, in questo contesto, mi piace ricordarlo vivo, come un testimone vivente del “care” che è necessario ad amare veramente la vita, anche e soprattutto in questi due anni di pandemia.

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