30 Marzo 2005. Giovanni Paolo II si affaccia per l’udienza dalla finestra dello studio in San Pietro. È ultimo Angelus che reciterà. Stremato dall’Alzheimer e dagli undici tra ricoveri e operazioni subiti nei suoi lunghi ventisei anni di pontificato, morirà tre giorni dopo.
Il volto è segnato. Un ultimo, disperato, intervento di tracheotomia attraversa la gola. Viene avvicinato alla finestra in carrozzella. Con le mani benedice e saluta a fatica. Indomito chiede di avvicinare il microfono. Prova a parlare, non riesce. Con un gesto quasi di stizza si interrompe. Riprova. Niente: guarda la folla spaesato. Poi le tende lentamente si chiudono, come alla fine di una tragica rappresentazione.
Queste immagini mi salivano alla mente, come bolle d’acqua in uno stagno, seguendo il dibattito seguito alla recente intervista di Papa Francesco al conduttore di “Che tempo che fa”, Fabio Fazio. E ciò non perché Bergoglio sia malato (anzi lunga vita al suo pontificato!) quanto per riflettere sulla capacità di comunicazione dei Papi.
Da dove nasce la loro forza?
Papa Francesco non ha certo bisogno di conferme in tal senso. Quante volte un suo gesto fuoriprogramma, una battuta improvvisata, un sorriso spontaneo ha raggiunto i nostri cuori: un’attitudine che rimanda alla genuinità di Giovanni Paolo I anche se il suo è stato un Pontificato talmente breve da non avere sufficienti riscontri per dimostrarne l’analogia.
I successori di Pietro sono uomini che comunicano esponendosi in primo piano, nella buona e nella cattiva sorte. A proposito della intervista su Rai3 Gianfranco Fabi ha giustamente sottolineato su questa testata come la capacità di Bergoglio sia quella di “parlare a chi non ha interesse ad ascoltare”, raggiungendo un pubblico diverso da quello che abitualmente frequenta San Pietro, rompendo le mura e lo schematismo tipico dei social che alla fine vanno a cercare solo quelli che la pensano come te. E se quella sera quasi sette milioni di persone (con punte di otto) sono rimaste incollate al piccolo schermo lo si deve sia a quanto Papa Francesco ha detto ma soprattutto all’autenticità trasmessa dall’uomo vestito di bianco nella sua semplicità di ospite seduto in uno studio spoglio: come fosse venuto a trovarti a casa un vicino un po’ (ma poco) più importante di te e che ti racconta di quando da piccolo voleva fare il macellaio, della passione per la musica o del suo bisogno di amicizie.
“All’uomo interessa l’uomo”, amava ripetere padre Piero Gheddo, compianto direttore di “Mondo e Missione” e indiscusso maestro di giornalismo cristiano. È la lezione che gli ultimi Papi hanno impresso in un crescendo al mondo della comunicazione: Giovanni Paolo II con il vigore dei suoi primi anni di pontificato (“È un leone!” ci raccontava Don Giussani dopo i suoi primi incontro con Wojtyla) sino alla pubblica offerta quasi senza pudore della malattia. Papa Benedetto, con uno stile diverso, che ha affidato alla parola scritta la testimonianza della sua persona sino al rischio dell’incomprensione (pensiamo al discorso Ratisbona), dell’umiliazione (l’intervento negato a La Sapienza di Roma) e della pubblica ammenda (la recente e commovente lettera sui casi di pedofilia in Germania). Bergoglio infine capace di fermare la papamobile per soccorrere una poliziotta caduta da cavallo, sposare due dipendenti durante un volo aereo, abbracciare un malato dal volto ripugnante scansato dai fedeli.
La Chiesa cresce per attrazione e non per proselitismo. Lo ha ricordato Papa Francesco ai membri del Dicastero vaticano per la Comunicazione nel Settembre 2019. Ratzinger lo ha ripetuto in molti suoi interventi. Solo la coscienza di essere strumento dell’opera di un Altro permette ai Giganti della Chiesa di essere liberi, anche dallo share.
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