Si rincorrono in questi giorni i due candidati americani per l’elezione del futuro presidente. Obama risulta comunque il cavallo vincente. Qualche giorno fa, qui nella famiglia dove vivo, si discuteva animatamente di un episodio alquanto illuminante sul futuro degli americani (e del mondo). Infatti, qualche settimana fa ad Obama, ad una conferenza con un delegato russo, poco prima di iniziare e senza accorgersi che erano accesi i microfoni, è scappato detto “Assicuri al presidente Putin che quando sarò rieletto potrò sistemare questa faccenda”.
In poche parole due cose: la prima, palese, è che Obama non pensa di perdere e sembra abbastanza sicuro della vittoria. In secondo luogo, mentre in Italia si cerca di recuperare un senso critico di come poter tornare, un giorno, alla sovranità nazionale, dopo la “tregua tecnica” contro-la-democrazia-cattiva-ma-per-la-democrazia-giusta dell’attuale governo, i potenti della storia si preoccupano di sistemarci una volta per tutte. Infatti, c’è di mezzo, per l’ennesima volta, la discussione del luogo dove posizionare le basi antimissilistiche americane in Europa dell’Est. L’Europa intera risulterebbe un paese satellite della superpotenza americana. Qui, comunque, si ragiona in termini imperialisti.
Solo gli europei hanno paura di usare questa parola, perché suscita ricordi talmente dolorosi che nessuna ha voglia di tirarli fuori dal cassetto. Qui in America invece noto con crescente stupore che le due guerre sono state un momento di grande maturazione istituzionale. Certo, non hanno avuto i campi di concentramento, non hanno avuto Hitler, Mussolini, Franco, eccetera ma hanno affrontato in maniera decisamente coraggiosa una guerra che non era la loro, hanno avuto perdite in vite umane assai ingenti, e un dolore assolutamente nuovo per una nascente repubblica precedentemente dedicata ad un isolazionismo quasi totale. Va tenuto conto di questo aspetto se si vuole affrontare i dibattiti che imperversano in Italia in questo momento. Come osserva George Grant, l’autore che sto affrontando per la mia tesi specialistica, l’uomo moderno, con la scoperta della scienza, è sempre più concepito come un essere storico, nel senso che attraverso la tecnica e la scienza è sempre più capace di controllare (e di manipolare) il suo futuro. Questo significa che l’uomo è sempre meno soggetto alle incertezze del cosiddetto caso, anche se, personalmente parlando, non credo esista nulla che possa essere definito caso. Intimamente sono convinto, come lo stesso Grant, che il futuro, in quanto proiezione delle possibilità di attuazione dipendenti dalla capacità dell’uomo, non esista; esso può bensì esistere solo in potenza in un presente pienamente vissuto.
Per riprendere il discorso cui ho già accennato, gli antenati dei nordamericani (da questa parte dell’Oceano esistono sette continenti, poiché Antartide, America del Nord e America del Sud sono considerati continenti a sé stanti), un po’ per via della loro religione calvinista, un po’ per via della percezione del Nuovo Mondo come potenzialità pura, hanno sviluppato una concezione del tempo come progresso a cui ha seguito l’esaltazione del fare. In questo senso i nord americani, in un certo qual modo gli unici vincitori efficaci delle due guerre, avrebbero dovuto essere il popolo eletto dell’evangelizzazione tecnologica attraverso la diffusione della tecnica in tutto il mondo. Questo ancora rimane uno degli evidenti obbiettivi di questa grande nazione. Una base anti missilistica in Europa dell’Est sembra fatta ad hoc non tanto per una nuova colonizzazione, bensì per l’inevitabile implicazione di proporre al nostro emisfero una nuova visione di noi stessi, che si adegui alla visione postmoderna e nietzschiana che caratterizza questa società. In pericolo non c’è semplicemente la nostra sovranità nazionale, bensì c’è in gioco il modo di concepire gli uomini. Infatti, e gli scandali politici di questi giorni in Italia ne sono la riprova, la tecnologia è innanzitutto un mezzo di ricatto, non di purificazione. Tutte le inchieste che si fondano su intercettazioni radiofoniche, intercettazioni di grossi movimenti di danaro (che altro non sono che zeri che passano da un computer all’altro) propongono una visione dell’uomo che qui in America alberga dietro ogni angolo.
In questi giorni ho preso l’abitudine di andare in bicicletta all’università, trentadue chilometri tra andata e ritorno, e gran parte del mio tragitto attraversa lo Sligo Creek Park. Si tratta di una foresta subito fuori il perimetro della città di Washington, dove ci sono cervi, scoiattoli e specie di uccellini in gran numero. Sembra surreale che a pochi passi da un’autostrada a quattro corsie per parte ci sia questa specie di paradiso terrestre. E di paradiso terrestre si trattava, durante le mie pedalate, finché dietro una curva del sentiero ho visto due poliziotti in bicicletta, con una volante parcheggiata tra gli alberi. Allora di colpo mi è apparsa una piccola ma fondamentale verità della nostra mentalità occidentale: noi, in fondo in fondo, partiamo sempre dalla premessa che l’uomo è cattivo, dimenticandoci che l’azione dell’uomo non ne caratterizzi l’origine. In ciò tendiamo a soprassedere al fatto che è una convinzione tutto sommato religiosa che caratterizza la nostra laica visione antropologica. Infatti, come afferma da buon protestante il caro vecchio Hobbes “Homo homini lupus!”.
Oggi ci sembra quasi che l’uomo sia solamente le sue azioni, per la ragione che ho già detto sopra sull’uomo come essere storico. Eppure commettiamo inevitabilmente il vecchio peccato di giudicare l’uomo nelle sue azioni. E ci dimentichiamo che non siamo stati noi a scegliere di essere uomini, né tanto meno abbiamo deciso di esistere. Esistiamo e basta. Sarebbe sufficiente commuoversi davanti a questo evento, al fatto della nostra esistenza, per avere un po’ più di misericordia e di pietà per chi, poco o tanto, ha voluto giocarsi per la nostra società. Inutile dire che non esistono più molti giudici a condannare questo peccato che, almeno dalle parti dove sono nato, in Uganda, Est Africa, si chiama Ipocrisia. Poco o tanto ne condividiamo tutti un pezzettino.
Tornando, quindi, alla domanda iniziale, non penso sia giusta la domanda “vincerà Obama o vincerà Romney?” Perché in fondo la domanda vera è questa, “vincerà o non vincerà Obama?”. Della sua impeccabilità infatti tutti sono assolutamente certi, ma come afferma il vecchio adagio, “non tutto è oro quel che brilla”.
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