Il nostro è il tempo in cui è ben difficile credere che le sorti magnifiche e progressive consolino la visione del futuro. Le passioni tristi e il discredito delle utopie ci legano piuttosto al passato. Lo strapotere della tecnica sullo sfondo del relativismo scientifico, l’allarme per i già macroscopici disastri ambientali, il disvalore di un’economia predatoria retta dalla mera legge del profitto in funzione di disuguaglianze sempre più accentuate, con persistente smentita dell’Arcadia liberale e liberista tanto vantata, le aree sempre più vaste della fame nel mondo, nell’accentuarsi quotidiano dei conflitti, lo scatenarsi delle pandemie ci mostrano segni evidenti dell’impossibilità di pensare a un futuro accettabile per le nuove generazioni, verso cui siamo tenuti a onorare un debito esistenziale.
È trascorsa e già ben lontana la stagione dei figli dei fiori, non furoreggia più il marxismo libertario professato da Marcuse, il post-hegelismo di Francis Fukuyama non è realisticamente approdato alla fine della storia col plauso dei politologi e l’avvento della pace perpetua. Le bombe e le stragi in Bosnia e nei Balcani hanno dato la tragica prova del fallimento delle attese. Certo dobbiamo reagire a una visione del futuro, quale è disegnata da George Orwell in 1984: “Se volete un’immagine del futuro, pensate a uno stivale che schiaccia un volto umano per l’eternità” e ci dobbiamo ben guardare da quelle utopie che assumono un volto totalitario (v. il Panopticon di Jeremy Bentham), da falansteri che si trasformano in prigioni. Il regno di giustizia non va certo instaurato colla forza. Gli unici veri reazionari sono comunque quelli che si appagano del presente.
Certo ci vorrebbero idee di concordia universale, di dialogo e di pacifica convivenza tra le religioni, quali risultano immaginate da Tommaso Moro sul fondamento della persuasione, bisognerebbe poter tradurre in realtà il paradigma di buon governo dell’isola sognata nel 1516, con una repubblica ben regolata, uno Stato in cui “la floridezza dell’uno soccorre alla povertà dell’altro” secondo un principio mutualistico. Ma l’utopia ci deve impegnare già dal piccolo di ogni nostra condizione, seppure con una buona dose di disincanto, nell’ottica della speranza, quella che si configura nell’ottimismo tragico di un Emmanuel Mounier. L’assunzione del principio di responsabilità deve essere capillare. Arrendersi all’evidenza di un male ritenuto spesso radicale ci condurrebbe a un determinismo disperato; la mancata assunzione del rischio, lungi dai facili farmaci consolatori, appiattirebbe il senso della storia. Non possiamo più credere al mito del buon selvaggio, al facile ottimismo illuministico, ma uscendo dallo sconforto e dalla solitudine va abbracciato il pessimismo della speranza, giorno per giorno.
La speranza non è rifugio nel futuro, opera già qui, nel realismo dell’esperienza umana condivisa. Soprattutto chi spera in Cristo per un grande teologo come Jürgen Moltmann (Teologia della speranza, 1964) “non può accontentarsi della realtà data, ma comincia a soffrirne e a contraddirla”. Secondo Kierkegaard “la speranza, passione per il possibile” è compagna inseparabile della fede. In tale prospettiva, senza troppi beni e troppi bagagli, aperto al mondo che ama, l’uomo, fatto l’inventario dell’essenziale per il cammino, può recuperare per sé, eterno viandante, il coraggio del futuro, in un clima di solidarietà fraterna.
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