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Storia

AVIOMACCHI, AZIONE DI GUERRA E NON TERRORISTICA

FRANCO GIANNANTONI - 12/05/2012

L’Avio Macchi dopo i bombardamenti dell’aprile 1944 (dalla mostra organizzata da Macchione Editore presso il Teatro di Varese nel maggio 2010)

Il bombardamento dell’Avio Macchi a mezzogiorno del 30 aprile 1944, una luminosa giornata di primavera, fu una azione di guerra, studiata a lungo e in ogni particolare dagli Alleati e dal CLN dopo la fallita incursione notturna del 1° aprile di una sessantina di quadrimotori-bombardieri B24 della RAF al termine della quale la storica azienda varesina venne danneggiata solo nella parte nord dove sorgeva il reparto meccanico e, con essa, furono colpiti l’Ospedale militare del Kursaal, il parco Camerini, alcune strade del centro-città, le carceri dei Miogni, i rioni di Masnago, Casciago, Casbeno, San Fermo, le Bettole, con un bilancio di diciassette  morti e venticinque feriti.

La provocatoria e stravagante “lettura” terroristica, per altro cara da tempo alla destra fascistoide, offerta dall’Assessore comunale di Varese Stefano Clerici, un ex AN assorbito nel capace ventre del PDL, nel mentre poneva con tanto di fascia tricolore al Colle Campigli una targa-ricordo alle vittime del bombardamento, ignorando che ne esisteva un’altra già da parecchi decenni al Cimitero di Masnago, appare falsa prima che strumentale, trascinando, sembra di capire, con l’avallo del Sindaco leghista avvocato Attilio Fontana la intera Giunta (a meno di smentite) lungo una china interpretativa della storia recente, politicamente imbarazzante e pericolosa.

Il nodo della Avio Macchi appariva obbligato con la guerra entrata in una fase molto delicata, con i tedeschi che stavano resistendo sulla Linea Gotica, con la produzione bellica che, malgrado gli attentati partigiani alle centraline elettriche e il sabotaggio compiuto nelle fabbriche dagli operai, proseguiva a ritmi elevatissimi.

Per gli Alleati era assolutamente necessario abbreviare i tempi del conflitto aiutati per quanto possibile dall’azione sempre più intensa della Resistenza.

L’Avio Macchi – che dal 1939 aveva messo sul mercato il Macchi Castoldi 200 (MC 200) ribattezzato “Saetta”, utilizzato nelle campagne di aggressione fascista dei Balcani, di Grecia e di Russia, un “caccia” ad ala bassa robusto, maneggevole, motore Fiat (e poi Benz), dotato di mitragliatrici seppure non velocissimo, dopo il nuovo modello MC 202 denominato “Folgore” varato nel 1942 – aveva proposto l’ultimo nato,  il “Veltro” (MC 205), fabbricato sino a quel momento in 262 esemplari (venduti al Reich e al governo di Salò) che aveva debuttato l’8 luglio del ‘43 sui cieli di Pantelleria reggendo bene il campo con le forze nemiche.

La Avio Macchi e la Breda di Bresso, alla periferia di Milano, dove si costruivano in buona parte gli stessi temibili MC 205 e il ponte sul Ticino a Sesto Calende, punto di passaggio dei treni militari, andavano dunque raggiunti e colpiti beninteso con il minor numero possibile di vite umane, obiettivo scontato ma non sicuro in azioni di così grande complessità.

La giornata festiva pareva la più adatta. Le linee di montaggio sarebbero state ferme, gli operai (oltre un migliaio) erano nelle loro case. Solo di guardia qualche custode civile, qualche milite della GNR del Lavoro (fra cui il simpaticissimo clochard Pappalardo che fu scaraventato dall’onda d’urto ai piedi della funicolare del Grand Hotel) e qualche unità tedesca  ai cancelli d’entrata.

Certo l’ubicazione della grande fabbrica non appariva ideale, posta com’era in viale Silvestro Sanvito a poche centinaia di metri dal centro-città e ai limiti degli abitati di Masnago e di Casbeno con decine e decine di ville lungo la fascia residenziale del colle Campigli (il Grand Hotel Palace Kursaal ospitava tuttora militari feriti sui vari fronti) e la grande pineta con ampi cascinali (la Rampada e la casa colonica dei Gandini) verso il Collegio Macchi.

Tutte queste ragioni, dopo il flop del primo giorno d’aprile, aveva spinto il Comitato di Liberazione Nazionale e il Corpo Volontari della Libertà di Varese nelle persone dei presidenti, l’azionista ingegner Camillo Lucchina (“Sant’Antonio”) e il liberale avvocato Maurizio Belloni (“Spina”) a stabilire un contatto con le autorità Alleate del Canton Ticino per valutare tempi e modi dell’operazione.

Gli incontri fra le due parti, superati gli ostacoli logistici di un confine presidiato in massa dalla Milizia e dalla Guardia di Frontiera del V Grenzwache tedesco, erano avvenuti a Villa De Nobili di Certenago, alla periferia di Lugano, dove già nel novembre del ’43 Ferruccio Parri e Leo Valiani per il CLNAI di Milano avevano avuto modo di chiedere agli Alleati (Allen Dulles per l’OSS americano e John McKaffery per il SOE inglese) aiuti in armi, vettovagliamento, denaro, promessi immediatamente ma purtroppo giunti con grave ritardo. L’accordo fra CLN-CVL ed Alleati fu raggiunto. Il 30 aprile, tempo permettendo, il piano previsto sarebbe stato attuato.

Andò proprio così. Quel giorno splendeva il sole e diciotto quadrimotori bombardieri B 17 del 99° e del 463° Group dell’USA Air Force si alzarono in volo alle 9 della domenica dai campi d’aviazione pugliesi di Foggia, Cerignola, Celone, Tortorella, Regina, per ricomporsi in formazione nei cieli di Lucera. Alle 11 avevano raggiunto Lodi, attaccando con bombe da 500 libbre (250 chilogrammi) e 4 mila libbre (i famosi“cookies”) la “Breda” di Bresso, distruggendola (4 morti e 20 feriti). Poi puntarono su Varese. Alle 11,30 le sirene lanciarono l’allarme. I cittadini presero d’assalto i rifugi disseminati nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, delle varie scuole, di via Lonati e di case private.

Il bombardamento in tre successive ondate iniziò alle 12.06 e durò otto minuti. Furono gettate 800 bombe (300 solo su Casbeno, il punto nevralgico). La Avio Macchi, centrata in pieno e ridotta ad un cumulo di macerie, arse per ore. Così la vicina Carrozzeria Macchi. Furono colpiti l’ospedale (il Kursaal, per volere delle autorità della RSI, era stato mimetizzato, togliendo lo schermo protettivo della grande croce rossa dipinta sul tetto!!!), tutte le ville dei Campigli e dei Miogni, abitazioni di Masnago, di Sant’Ambrogio, di via Crispi e del centro città.

Intatti sotto cumuli di terriccio rimasero alcuni macchinari trasferiti in un secondo tempo a Valle Olona per un fallito tentativo di riprendere almeno parzialmente la produzione. Le vittime accertate furono ottantuno, i feriti un centinaio di cui alcuni nel tempo non sopravvissero.

Scriveva il parroco di Casbeno don Ubaldo Mosca nel “Liber Chronicus”: “Alle ore 11,55 segnale d’allarme. Verso le 12 ecco gli apparecchi: provengono da ovest, da Genova, sono circa 80. Il parroco, le suore, don Guzzetti del Seminario di Venegono ed altre persone, si rifugiano nel campanile. È il finimondo. Per dieci minuti c’é un bombardamento di eccezionale violenza. E questo in parrocchia. Il campanile ha degli scossoni. Io do l’assoluzione agli astanti: chi grida, chi piange, chi prega. Si ode il fragore degli scoppi, l’aria è eccitata. I vetri si spezzano, le porte si spalancano e si scardinano se chiuse per lo spostamento d’aria. E questo nel giro di dieci minuti. Poi silenzio. Il silenzio della morte!”

Varese fu dichiarata “località soggetta a sfollamento”. Si mosse anche Mussolini che ricevette a Gargnano sul lago di Garda sede del governo repubblicano, donna Maria Rosa Sampietro Giani, presidente della “socializzata” “Cronaca Prealpina”, vedova della medaglia d’oro Niccolò Giani, caduto nel ‘41 sul fronte greco-albanese, a cui donò 500 mila lire per le vittime e 100 mila lire per il giornale che aveva subito dei danni alle rotative.

Capo della Provincia, Questore, Podestà, Commissario Prefettizio, non si fecero sfuggire l’occasione dando il via ad una frenetica campagna di propaganda. Sui muri degli edifici colpiti dalle bombe furono affissi dei grandi manifesti con scritte a caratteri cubitali: “Questa casa è stata distrutta dai barbari anglosassoni. 30 aprile 1944, XXII”.

L’ultimo esemplare di “Veltro” sopravvissuto al bombardamento, già a bordo di un treno-merci per essere inviato oltre confine, fu fatto saltare per aria alla Stazione delle Ferrovie dello Stato da un colpo magistrale della 121a GAP “Gastone Sozzi” di Walter Marcobi.

Questo per la verità storica. Il sangue di tanti innocenti ebbe il sapore amaro di un prezzo dovuto per uscire al più presto da una sciagurata guerra voluta dai nazisti e dai fascisti.

Per primi i varesini lo compresero e un anno dopo, esultanti (anche quelli che erano stati a guardare dalle finestre come sarebbe andata a finire), presero parte in massa per le vie imbandierate della città al corteo per l’avvenuta Liberazione.

Il 23 giugno la Giunta del sindaco Enrico Bonfanti, ex combattente di Spagna con le Brigate Internazionali, ex deportato politico a Ventotene e più volte incarcerato dal fascismo, all’unanimità decise di concedere la cittadinanza onoraria al colonnello Charles Poletti, Governatore Alleato della Lombardia (di madre varesina) “in segno di doveroso omaggio e di grata riconoscenza alle Nazioni Unite liberatrici che guidano l’Italia alla riconquista di una pace prospera ed operosa e di un degno posto nel consorzio civile delle Nazioni”. Il 29 luglio Poletti venne al Palazzo Estense a ricevere il riconoscimento. I festeggiamenti furono molto calorosi.

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