Nelle recenti vicende politiche italiane si è più volte accostato il nome e l’esperienza di Comunione e Liberazione a fatti e misfatti (o presunti tali), che getterebbero l’ombra di reati o anche solo di comportamenti non consoni alla sobrietà, su una delle realtà di fatto più vive del cattolicesimo italiano. Editorialisti illustri come Galli della Loggia vi leggono il segno della crisi di un modello di presenza politica dei cattolici, tentati o dall’egemonismo o dalla separatezza, comunque da una sorta di “sindrome di superiorità valoriale” che condurrebbe a costruire un “maso chiuso”, ossia un sistema di potere settario, rigorosamente aperto solo a quelli del loro “giro” ed impermeabile a quanti la pensano diversamente. Per una realtà come CL così sensibile al richiamo comunitario dell’amicizia cristiana, risulta ancora più facile all’opinione pubblica sovrapporre le scelte e le responsabilità personali (sia a livello penale che morale) alla vita del “gruppo”, accusando il Movimento come tale di essere la causa, o almeno lo sfondo, di comportamenti riprovevoli anche se tenuti “a fin di bene”.
Da qui l’accanimento giornalistico, nonostante i comunicati ufficiali di CL che smentiscono ogni accusa di aver ricevuto privilegi o di aver preso parte ad azioni disoneste, che dimentica il fin troppo ovvio principio di distinzione della responsabilità personale da quella del Movimento di cui si è parte. L’argomentazione è semplice quanto falsa: come può non c’entrare CL con l’operato di personaggi che non fanno mistero della loro appartenenza al movimento di Don Giussani e che proprio da lui hanno imparato che la fede c’entra con tutta la vita? Per cui se uno sbaglia, la radice dell’errore starebbe nell’origine, proprio in quell’appartenenza che ha fatto nascere l’impegno personale, cioè in CL.
A spiazzare tutti, uscendo da ogni ambiguità, ci ha pensato lo stesso successore di Don Giussani don Julian Carròn che, facendo un’incursione nella tana del laicismo di Repubblica, scrive al suo direttore non per difendere o giustificare alcuno (“excusatio non petita accusatio manifesta” dicevano i Latini!), neppure per sfoderare l’ipotesi del complotto (anche se l’importanza di alcuni personaggi potrebbe indurre a pensarlo), ma piuttosto per andare alla vera radice di tutto: se bisogna chiedere perdono, è per non aver seguito il fascino dell’esperienza incontrata nella limpida figura di don Giussani, cercando in qualcos’altro l’attrattiva per la riuscita della vita, e rinunciando a testimoniare che Cristo è tanto desiderabile ed affascinante da essere l’unica vera ragione di ogni impegno.
Realisticamente se si parte da qui, cade il problema di autogiustificarsi e rinasce la voglia di cambiare, il desiderio di conversione, che permette di riconoscere tra l’altro anche il tanto bene fatto da persone di CL sotto il profilo educativo, culturale, sociale, ecclesiale, caritativo; bene che si spiega nella fedele sequela del carisma di Don Giussani “traboccante della misericordia di Cristo” e che nessun errore può cancellare se si accetta che Cristo è l’unica salvezza rispondente al cuore umano.
Ragionare così è certamente impolitico, poiché non accetta né la logica del “tutto è lecito” perché si è cattolici, né del “è meglio non sporcarsi le mani” per non scendere a compromessi: chiede, invece, di vivere la vita da protagonisti, sapendo che la presenza cristiana non si identifica né con il potere né con l’egemonia, ma è la testimonianza di una diversità umana nata dall’incontro con Cristo, una diversità verificata vivendo la fede come capace di costruire il bene della persona e da cui è nata una “montagna di bene” per tutta la società.
La gravità del momento apre ai cattolici nuove responsabilità, che non sono riducibili alla semplice onestà (questo è un prerequisito da “pretendere” da chiunque, politico o tecnico che sia), ma chiedono di creare forme di quella vita buona di cui parla sempre il nostro Arcivescovo. Benedetto XVI ha ricordato che il compito della politica è costruire “il giusto ordine della società e dello Stato”, e se questo passa attraverso le leggi occorre lavorare per dare all’Italia buone leggi soprattutto per tutelare i valori irrinunciabili, non negoziabili. Al mondo laico i cattolici devono chiedere la lealtà di accettare il confronto e la sfida sul bene, senza cripto-anticlericalismi di maniera, magari costruiti su pettegolezzi o su moralismi, con l’onestà intellettuale di capire che l’esperienza della fede aiuta a “purificare” anche la politica rendendola strumento di relazioni virtuose per una convivenza pacifica.
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