Aprendo per interesse personale la pagina delle Lettere (la mia risposta ad un cortese lettore) ho rivisto l’intervento di Monsignor Panighetti sul disagio giovanile. Rileggendolo mi ha colpito la sua conclusione: “Certamente la famiglia, la scuola e le altre agenzie educative non bastano più: è più che mai evidente che l’intera comunità locale e nazionale deve farsene carico. Urgentemente”.
Condivido sia l’urgenza, sia il giudizio sull’insufficienza delle proposte che vengono, in questo momento, dalla scuola, dalla famiglia e dalle altre agenzie educative, ricomprendendo in queste anche la Chiesa.
Quali possono essere le nuove proposte? Con discreta apprensione leggo che la Regione Lombardia proprio sulla base della valutazione del disagio giovanile, ha recentemente approvato in Consiglio una mozione che propone l’istituzione dello psicologo di base. Personalmente non ho nessuna avversione per il lavoro dello psicologo, della cui consulenza mi avvalgo per i problemi creati dalla disabilità di mio figlio, tuttavia temo che il rimedio proposto non sia adeguato per la generalità del tema, ma solo per un piccolo numero di casi specifici.
Temo la medicalizzazione di ogni sintomo di disagio (rimedio peggiore del male) e condivido le osservazioni proposte da Giovanni Cominelli (Editoriale da Santalessandro.org, Settimanale on line della Diocesi di Bergamo, 22 gennaio 2022) che “la creazione di un servizio psico-burocratico regionale più che rispondere alle domande di salute mentale dei cittadini, pare piuttosto registrare la pressione degli psicologi,” e che “se il disagio nasce dall’assenza di relazioni, un’offerta massiccia di psicologi potrà colmare quell’assenza?”
L’editoriale conclude così: “Alle nostre spalle pare sia attiva una filosofia inconsapevole della storia: abbiamo diritto alla felicità su questa terra, dalla culla alla tomba e il Dio dello Stato sociale ce la deve garantire, a tutti i costi. La felicità come diritto umano… Ma la malattia e il dolore, ce li meritiamo o no, fanno parte della realtà della storia e della vita. Non dovremmo far credere ai nostri figli che la malattia e il dolore e la morte non c’entrano con noi e con loro. Cattive credenze li spingono verso l’irrealtà e verso inedite sofferenze psichiche.”
Giusto negare che la psicologia sia la soluzione di ogni disagio umano (senza negare l’aiuto che può dare in specifiche situazioni), ma occorre anche passare ad una proposta attiva e praticabile. Non vedo la possibilità di un soggetto alternativo alle agenzie educative naturali: famiglia e scuola, a cui Chiesa e Stato devono dare un supporto secondo le proprie ben diverse competenze. Dallo Stato ci aspettiamo un intervento in base al principio di sussidiarietà, che, senza invasioni di campo, cioè senza tentare di introdurre propri criteri di valore, fornisca a famiglia e scuola i mezzi materiali per svolgere meglio il compito proprio. Alla Chiesa, cui riconosciamo un dovere educativo, chiediamo una vivacità di risposta alla apparenza di negazione che malattia, dolore e morte, sempre in ogni epoca e circostanza, oppongono alla domanda di felicità insita in ogni cuore umano. Nel mondo giovanile, frastornato dalla babele di messaggi che arrivano dai nuovi media, occorrerà creare o valorizzare proposte e luoghi di vita comunitaria, capaci di ricostruire quel tessuto di relazioni che le regole di contenimento della pandemia hanno mortificato.
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