Avremmo tutti voluto l’elezione del Presidente alla prima chiama con la soglia dei due terzi dei voti come avvenuto con Cossiga nel 1985 e con Ciampi nel 1999. O almeno al quarto scrutinio con la maggioranza assoluta (505 voti). Comprensibile quindi la cocente delusione.
E’ necessario però inquadrare storicamente ciò che stiamo vivendo. L’elezione più drammatica fu quella del 1992 di Oscar Luigi Scalfaro con il Paese sul baratro del crollo e nel mezzo della tragica offensiva della mafia con l’assassinio di Falcone a Capaci.
La peggiore fu quella del 2013 con la rielezione di Napolitano dopo il fallimento della candidatura di Prodi con i famosi centouno franchi tiratori e due mesi dopo la “non vittoria” del Pd di Bersani alle elezioni generali, come lui l’aveva definita.
Lo ricordo non certo per il gusto sadico di rigirare il coltello nella piaga (almeno per me) ma per cercare di delineare una chiave di lettura non tutta deprimente di ciò che sta capitando dentro un Parlamento frammentato, con il più grande gruppo misto della storia, con l’assenza di un partito guida che avrebbe dovuto essere, e non è stato, il M5S, con la testarda rivendicazione di leadership debolissime.
Qui, nelle leadership, sta il vero e preoccupante limite. Salvini ha occupato tutta la scena, ha fatto e disfatto con risultati da bocciatura senza esami di riparazione. Si è dimostrato capo del suo partito – ma il malessere serpeggia anche lì – e assolutamente non leader del suo schieramento con Berlusconi e Meloni che vanno per conto proprio.
Avventata e incomprensibile la candidatura senza rete di Elisabetta Casellati, seconda carica dello Stato. C’è solo da sperare che tale confusione non indebolisca la figura di Mario Draghi. Dietro molti sinceri e fondati auspici affinché resti a Palazzo Chigi (erano anche i miei), c’è la paura del “commissariamento” della politica. Cosa voglia dire non capisco. Lui è l’esito, non certamente la causa di questa disgraziata legislatura.
Il governo nel prossimo anno avrà un carico di lavoro straordinario: pandemia ancora in corso, rialzo dell’inflazione, probabile attacco speculativo sulle economie deboli con fortissimo debito pubblico, attuazione del Piano di ripresa europeo, crisi Ucraina: a questo dovrebbe pensare il Parlamento.
Detto tutto ciò, l’unico metodo possibile per la presidenza della Repubblica, come qualcuno aveva suggerito, è far uscire il candidato comune da una riunione di tutti i veri o presunti leader, soprattutto quelli della maggioranza di governo.
Come aveva affermato Draghi lo scorso 22 dicembre, è necessario che non ci sia contraddizione fra la maggioranza che elegge il Presidente e quella che sostiene il governo. Questo nodo è stato sciolto in extremis con la richiesta a Mattarella del bis, e quindi con la riconferma del premier. Meno male.
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