Una memoria da vecchio zio a proposito del pivot spagnolo Lorenzo Alocén, scomparso a 84 anni nel giorno in cui, 18 gennaio, un suo autocanestro regalò all’Ignis la vittoria sul Real Madrid in Coppa dei Campioni. Quella sera del ’62 -rievocata da Damiano Franzetti su Varesenews- stavo anch’io alla Casa dello Sport di viale 25 aprile, e vissi come al solito la partita accanto a Franco Garbosi, il figlio maggiore di Rico, allenatore dell’Ignis. Compagni di scuola e coinquilini, ci issammo secondo abitudine a gridare “Forza Varese!” sulla spalliera ginnica in fondo a destra, proprio di fronte all’imprevedibile “luogo del delitto”: il tabellone sud.
Quando il madridista segnò per noi, esplose l’entusiasmo follaiolo. Nessuno all’istante intese la fregatura, pensando irrazionalmente alla pirlata d’un “blanco” uscito di testa. Capìto poi dai tifosi come stessero le cose, la comitiva del Real faticò a lasciare la palestra dei pompieri senza subir oltraggio fisico, scortata da insulti e sputi, volteggiar di mani e lanci d’oggetti vari.
Più di dieci anni dopo, avviatomi al mestiere di giornalista e scrivendo di sport, intervistai al Palace Hotel di Colle Campigli il tecnico spagnolo che aveva deciso l’autocanestro, affidandone l’esecuzione ad Alocén. Si chiamava Ferrandiz, piccolo, grassottello, capelli color pece, il volto paonazzo segnato da sottili baffetti più messicani che iberici: era tornato a Varese per affrontare quella ormai nota come Valanga Gialla.
Gli chiesi se la storica scelta fosse stata in qualche modo studiata o invece l’esito d’un prodigioso riflesso intuitivo. Raccontò che all’ipotesi dell’utile harakiri aveva più volte pensato, nel caso si fosse presentata l’occasione. Non era mai accaduto, successe a Varese e il piano scattò.
Don Pedro, a taccuino chiuso e impoltronato nei velluti dell’albergone Liberty, si disse orgoglioso della furbata. Per due motivi. Il primo: aver dimostrato qualità di conducator freddo e cinico, anziché troppo caliente come gl’imputavano in patria e fuori. Il secondo: essersi tolto lo sfizio d’esibire una scaltrezza maggiore di quella degl’italiani. Che ammirava, o addirittura e machiavellicamente venerava, come astuti padri dei latinos.
Chiusi la chiacchierata domandandogli se gli sarebbe piaciuto allenare a Varese. “Un sogno”, fu la risposta del coach già assurto al rango di celebrità europea: ammirava lo squadrone di Aza Nikolic, stravedeva per Ossola e Meneghin. L’indomani proprio Aldo e Dino -assieme a Manuel, Dodo, Flabo eccetera- fecero vedere al Real i sorci verdi. Vendicando l’autocanestro con l’autodafé, una condanna al supplizio cestistico che sarebbe valsa a lungo non solo per gli spagnoli.
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