Pochi giorni fa è apparsa una scritta antisemita sul muro della sede del Pd, in viale Monterosa a Varese. Concordo con coloro, numerosi, che da diverse provenienze politiche hanno condannato il gesto. Mani ignote hanno composto la scritta suddividendola in due righe.
Prima riga: “IL LAVORO?” Seconda riga: “ARBEIT MACHT FREI”, parole fin troppo note e tristemente riconosciute, che campeggiano sul cancello di ingresso al lager di Auschwitz. Infinite volte l’abbiamo vista nei numerosi film e documentari: troppe ma, evidentemente, in numero ancora insufficiente a transitare al maggior numero di persone il loro terribile significato.
Sono parole che ogni volta procurano una fitta al cuore, al solo pensiero di quanto dolore, fatica, tormento, morte abbiano significato per i milioni di vittime della barbarie prodotta dagli ideatori della Shoah. Ma siamo proprio certi che gli autori della scritta sappiano di quale “lavoro” si parli? Non certo del lavoro concepito dai padri della Costituzione, quello a cui migliaia di licenziati, precari e appartenenti alle fasce deboli anelano, il lavoro che dà dignità a chi lo svolge.
Il lavoro concepito per i lager inflisse una pena insopportabile a uomini, donne e bambini ridotti in schiavitù e destinati allo sterminio. Provo a immaginare l’identikit del grafomane antisemita, fascista o nazifascista, colui che ha deciso di regalare una scritta tanto odiosa alla città di Varese, a partire dai primi fruitori, gli studenti delle vicine scuole e gli utenti del locale presidio sanitario. Sarà stato un adulto orgoglioso di definirsi fascista o nazifascista? Un uomo fiero di avere abbracciato e nutrito un’ideologia di morte, convinto nel sostenere un modello di società secondo lui perseguibile ancora oggi, proponibile al mondo odierno dove vive una maggioranza di popoli civili che hanno decretato “Mai più” alla possibilità che una tale mostruosità venga ripetuta.
E se invece fossero stati dei giovani, dei ragazzi, con poche idee confuse, alimentate dai cattivi maestri? Ragazzi a cui la scuola non è riuscita nell’intento di trasmettere le basi del vivere civile. Giovani che la storia l’hanno studiata solo per le interrogazioni ma non hanno imparato a collegarla con il presente. Magari dei giovani adulti che hanno abbandonato precocemente gli studi e la cui cultura raffazzonata si abbevera alle fonti della rete dove si pesca un po’ di tutto senza alcun filtro. Per fare da argine all’oblio del passato nel corso degli anni le associazioni antifasciste si sono spese per incontrare le scuole e per proporre momenti di dialogo con i testimoni diretti di quell’epoca storica precipitata nel nazifascismo.
Ora però la testimonianza spetta a noi, alla generazione dei figli di coloro che sono scomparsi. Molto lavoro spetta alla scuola, agli insegnanti di qualsiasi disciplina, che possono attingere al vasto patrimonio culturale, nazionale ed europeo, utile per educare alunni e studenti ai valori della società democratica nata dalla Resistenza. Nell’ora di educazione civica, e non solo, si possono, si devono affrontare i temi connessi alla memoria della Shoah, della Resistenza e del lungo percorso compiuto dal popolo italiano per costruire la nazione democratica di oggi. Perché i ragazzi e i giovani che scrivono sui muri frasi indegne non lo facciano per ignoranza e per inconsapevolezza; perché non aderiscano più a ideologie di morte; affinché non approvino, nemmeno tramite slogan abietti, la violenza insita nell’ideologia del nazifascismo.
Negli incontri con le scuole superiori abbiamo chiesto: “Ma perché a vostro parere un compagno di classe diventa, o si comporta da fascista?”. Spesso la risposta è stata “Per sentirsi forti, coraggiosi, dei duri pronti a tutto. Ma non sono fascisti per davvero”. Fascisti immaginari, nazisti per caso, o per compiere un ipotetico rito di passaggio alla società degli adulti? La conoscenza è l’unica arma di cui disponiamo contro certe derive: facciamo nostre le parole attribuite a Socrate:” Solo chi è colto è veramente libero”.
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