Non si ricorda un partito di maggioranza relativa così balcanizzato da non risultare determinante, al netto delle sue spaccature, per l’elezione del presidente della Repubblica. È anche questo, specialmente questo, a stemperare nel nulla i pronostici di voto alla vigilia del grand’evento. I Cinquestelle non sono più i Cinquestelle. Sono un ex insieme, reduce dal trionfale successo nel 2018 e testimonianza d’una malinconica Caporetto nel 2022.
Il prezzo maggiore della ritirata dal protagonismo lo paga l’intera sinistra-centro, sprofondata nel caos. Perché l’M5S è alleato di Pd e Leu, Conte il partner obbligato di Letta e Bersani, però al suo lato Di Maio rappresenta una voce diversa da ascoltare, e che dire dei numerosi, infiniti “indipendenti” (voltagabbana) che un tempo vestivano la casacca grillina e oggi non più, lasciamo infine perdere -anzi, no- la nefasta influenza che sull’ingorgato traffico di quelle parti esercita il fresco rovescio giudiziario del Fondatore, Garante, Elevato.
Il Movimento del Vaffa che rivoltò l’Italia come un calzino e doveva aprire il Parlamento come una scatola di tonno offre zero affidabilità. Segnalata disperazione nella casa dei Dem, pur non sopravvivendo benone neppure altri: basti pensare a come se le suonano (metaforicamente, ma che male) a destra, dove Berlusconi boxa per sé, Salvini vuole fare il ringmaker e la Meloni lancia a ogni ora il guantone di sfida agli alleati.
In un tale caos, complicato dall’irruzione che a Montecitorio farà la pandemia condizionando le modalità tecniche d’elezione del Prescelto, un qualunque scommettitore rischierebbe la ghirba. Non lo pensa il viandante per caso, cioè noi spettatori della rappresentazione qui fuori dal Palazzo; lo pensano gli attori maggiori e specialmente minori del drammone, spauriti all’idea che un pastrocchio quirinalizio porti al calo anticipato del sipario sulla legislatura, e tutti a casa disperatamente. Senza gloria, stipendio, vitalizio. Portandosi dietro un bagaglio pieno di sprezzo degl’italiani, che avevano dato fiducia alla rivoluzione populista e cui pruderebbe un’infiammante presa per i fondelli.
La speranza è che fra tanti uomini deboli (e donne: ci sono anche le donne), alla fine prevalga, se non il fascino, almeno il prestigio d’una personalità forte. Forte non perché autoritaria, ma perché portatrice d’autorevolezza in un’imbarazzante assenza della medesima. Lo standing nazionale e internazionale di Draghi fa di lui la medaglia da mettersi al Colle, e non saran mica tutti scemi gl’importanti firmatari di significativi endorsement politico-economici a suo beneficio. Solo se un altro che il mondo ammira, Mattarella, accettasse di ricandidarsi a pro del bene collettivo lasciando il premier sulla poltrona di Chigi, l’opinione pubblica -italiana ed extraitaliana- si rassicurerebbe. Ma queste sono chiacchiere di cui il bussolotto del destino altamente si stropiccia: farà ruzzolare come gli pare i dadi che gli han buttato dentro. È l’ora del gioco d’azzardo, cari amici, essendocene preclusi d’alternativi.
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