Per i miei nonni materni, Carlo e Maria, era “Gesù Bambino”. Oltre a nascere e a salvare il mondo con il suo avvento, sarebbe stato lui a portarmi i regali, la notte tra il 24 e il 25 dicembre.
Ci sarei arrivato dopo, molto dopo, con quel sorriso che ogni volta sprigiona il ricordo che mi porta a loro: chiamarlo così, per Carletto e Mariù, era l’espediente di due credenti che non rinunciavano a indottrinare il nipote alla fede pur serbando, accarezzando e corroborando, con sapienza e delicatezza, la magia dell’attesa pagana.
Irrinunciabile, ed è questo il punto, per ogni pargolo.
Devo confessare, con l’onestà dei quasi 40 anni, che a me che si chiamasse come lo chiamavano loro o che di nome facesse Babbo e di cognome Natale importava poco: a contare era il “fatturato” del 25 mattina.
A 7 o 8 anni li misi in crisi: nella letterina chiesi nientepopòdimenoche la motoretta: elettrica, bellissima, quasi vera. Un po’ troppo per le loro tasche di pensionati e nonni plurimi. Devo ammettere che il modo con cui uscirono dall’impasse, relegando l’incombenza alle tasche di mamma e papà, fu abbastanza geniale: mi donarono un modellino di elicottero, asserendo che fosse con quello che Gesù Bambino mi aveva recato la due ruote (sì, alla fine la ottenni: d’altronde ero un bravo fioeu, mite e riflessivo).
A proposito dei miei genitori: anche loro si davano da fare per costruire il mio mondo dei sogni. A ogni Vigilia, insieme a mamma Ivana preparavamo una bella tazza di latte con il caffè, adagiandola poi su un vassoio accompagnata da qualche biscotto. La mise en place finiva poi sul davanzale sotto alla finestra, a disposizione – mi spiegava mamma – di Babbo Natale per quando sarebbe giunto. Io quindi me ne andavo a letto tutto contento, sicuro che la cortesia ingegnata dalla genitrice avrebbe ben disposto il signore barbuto. A quel punto, a mia insaputa, interveniva papà Giovanni, consumando senza troppo sacrificio lo spuntino e lasciando i resti in bella vista come prova per l’indomani.
Tutto finì l’anno successivo alla motoretta: mia cugina, due anni più grande di me, qualche giorno prima del 25, tra il rusco e il brusco, mi confessò l’inconfessabile: Babbo Natale non esiste.
A differenza dei negazionisti odierni, però, mi fornì prove schiaccianti: i regali erano già stipati in un ripostiglio di casa. Ci rimasi male per quei trenta o quaranta secondi, poi aprii i pacchi insieme a lei e iniziai a giocare. Immaginate la desolazione dei miei quando lo scoprirono…
Penso sia proprio vero che il fanciullino che è in noi ci scorti sempre. Da adulto, infatti, ho sentito il forte bisogno di riaccendere gli occhi del bambino che sono stato: a darmi la possibilità di farlo sono stati altri occhi, quelli delle mie nipotine.
Prima Miriam, che ora ha quasi 14 anni, poi le gemelline Viola e Irene, che oggi sono arrivate a 8. Per loro zio Fabio è diventato Babbo Natale. E il 24 dicembre un rito che inizia verso le ore 17. Prendo la macchina, raggiungo Milano dove loro abitano, mi faccio aprire il cancello da mia sorella o mio cognato e mi nascondo nel loro garage. Lì inizia la vestizione: pantaloni e giacca rossa con cintura nera, cappello e barba e baffi bianchi, entrambi assai vaporosi nel tentativo di celare anche il mio importante e inconfondibile naso. Via le scarpe (altro elemento potenzialmente riconoscibile) e tocco di classe: gli occhiali da sole, una precauzione insita nell’operazione anonimato che con il tempo è diventata anche una sorta di firma. Se chiedete alle mie tre piccole donne, la descrizione dell’omone rosso li ricomprende sempre.
Da lì ecco la risalita al terzo piano, talvolta in mezzo all’ilarità dei vicini, il tocco leggero del campanello e l’entrata in scena con una borsa dell’Ikea zeppa di pacchetti e pacchettini: un Babbo Natale rigorosamente muto, rapido e sfuggente come Arsenio Lupin (in casa ci rimango sempre meno di un minuto), ma assolutamente visibile. Vero. Esistente.
Negli anni, oltre alla soddisfazione di non essere mai stato sgamato, ho collezionato ogni tipo di reazione: le frignate quando erano piccole piccole, la timida contemplazione nelle stagioni successive, lo spensierato corrermi incontro poi e addirittura una richiesta di selfie (mannaggia a ste figlie della modernità…) l’ultima volta.
Ognuna di esse è finita dentro il cuore. E lì verrà custodita. Per sempre.
Lo scrivo anche per il vescovo di Noto, Antonio Staglianò, che pare si sia espresso maldestramente in senso contrario nel corso di una recente omelia: sì, Babbo Natale esiste. Me lo hanno detto i miei amati nonni, confermato i miei adorati genitori e ricordato gli occhi delle mie preziosissime nipotine.
E io, a tutti loro, credo.
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