Il mio primo ricordo di un’elezione del Presidente della Repubblica risale a quando avevo tre anni e nove mesi. A quel tempo, la mia famiglia si era da poco trasferita in un piccolo appartamento di recente costruzione, alla estrema periferia della città. Si era aggiunto al nostro nucleo familiare (sei persone) il nonno materno, rimasto vedovo un paio di anni prima. La stanza in cui dormiva mio nonno (e non solo lui) era la stessa in cui consumavamo i pasti e in cui troneggiava un nuovissimo televisore, per la cui accensione bisognava prima sollevare una levetta collocata sul fronte di un enorme alimentatore posato a terra e attendere che si illuminasse una piccola spia rossa.
Ora, mio nonno, volontario della Grande guerra e prigioniero a Mauthausen, era un tipo taciturno, come erano gli uomini di quel tempo. Ho pochi ricordi di lui e nessuno della sua voce. Era un uomo alto e distinto, che, nel corso della sua vita, aveva fatto il venditore ambulante di caramelle ed il commesso in un negozio di tessuti. Non credo avesse studiato molto, ma aveva una bellissima grafia. Era monarchico. Il grosso della sua eredità finì nelle mani del mio fratello maggiore, il primo dei suoi nipoti a portare il suo nome: consisteva in un album di ritagli ricavati dalla rivista «Oggi» e tutti dedicati alla famiglia Savoia ed un piccolo tricolore con lo scudo sabaudo.
L’elezione del quinto Presidente della Repubblica italiana si svolse nel dicembre del 1964. Ci vollero ben 21 scrutini: dal 16 al 28 dicembre. Mio nonno seguì le elezioni in diretta. Si piazzava al centro del tavolo da pranzo (rivestito rigorosamente da una fòrmica dai colori vistosi, come erano tutti i tavoli da pranzo negli anni del boom) e di fronte al televisore. Davanti a sé, un foglio di carta ed una matita. Durante lo spoglio, il nonno se ne stava con la testa china su quel pezzo di carta annotando i voti, che rimbalzavano dal televisore. Verificava che i conti trasmessi alla fine di ogni scrutinio fossero esatti.
Di quei giorni, me ne ricordo solo uno. Un mio fratello, poco più grande di me, ed io giocavamo nella stessa stanza in cui mio nonno controllava il corretto operato della Repubblica. Non c’erano altri spazi per i nostri giochi. Ad un certo punto, avevamo iniziato a rincorrerci intorno al tavolo e, forse senza neppure aver finito il primo giro, il nonno si alzò furente, ma sempre silenzioso, raggiunse mio fratello e, silenziosamente, lo menò. Capimmo, anche senza spiegazioni, che quando si eleggeva a Roma un Presidente della Repubblica non si dovevano disturbare le operazioni di voto e di scrutinio.
Mio nonno morì l’estate successiva. Un tumore ai polmoni se lo portò via velocemente.
Probabilmente per quella lontana esperienza, pur nelle turbolenze dell’adolescenza e della gioventù, ho sempre seguito con una certa emozione l’elezione presidenziale. E ho sempre pensato che quel momento fosse uno dei più solenni della nostra società politica. Quel rito era, per me, più importante delle stesse personalità chiamate a rivestire quella carica.
A memoria, però, non ricordo che questo momento – ripeto – così alto e solenne, sia stato mai preceduto da una campagna elettorale, con tanto di promesse, dal respiro e dallo stile, anch’esse, di una volgare campagna elettorale. Per questo, credo, quando ho letto sui giornali che qualche personaggio dal passato discutibile, dopo essersi candidato alla prima carica dello Stato ha iniziato, come il più spregiudicato dei venditori di merce fasulla, a fare anche promesse elettorali, il mio pensiero è andato a mio nonno. Ed ho pensato che le sue mute, ma efficaci, spiegazioni circa il rispetto che si deve ad alcune liturgie laiche, civili, politiche, non fossero poi così sbagliate.
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