Nessun luogo più del Sacro Monte di Varese, sito di devozione ancor prima che patrimonio Unesco, può parlarci del Natale e del mistero legato alla nascita del Bambino. Ce lo ricordano proprio i misteri del Rosario lungo la Via Sacra, concretamente rappresentati dalle 14 cappelle, che dalla prima, dedicata all’Annunciazione, conducono fino alla Gloria del Cristo Risorto e poi al santuario con la Madonna nera. Alla terza è la Fuga in Egitto. Un tempo, sui muri adiacenti la stessa, si notava un affresco del Nuvolone, che fu sostituito nel 1983 da un murale acrilico -sul medesimo soggetto- opera di Renato Guttuso, richiestogli da monsignor Macchi. La municipalità concesse al maestro di Bagheria la cittadinanza onoraria.
Per chi lo osserva, il murale ha i colori vividi e brillanti, così riconoscibili, del pittore siciliano, e le fattezze fisiche della vergine e del bambino sono davvero ‘piene di Grazia’. Il turchese dell’abito della Vergine contro il paesaggio solare, la tunica dalle tonalità contrastanti di Giuseppe, e certi particolari di dimensioni minute, ma simbolici, come il ramarro e le piante verdi esotiche, fanno parte di un insieme essenziale e però unico, indimenticabile. Il tema fu ispirato all’artista da un’istantanea pubblicata in un settimanale. Rappresentava migranti palestinesi nei quali il maestro ravvisò la famigliola del bambino in fuga da Erode. Quella famigliola, che per ragioni d’arte aveva suscitato anche qualche perplessità, è ancora lì. E più che mai appare come simbolo di un’attualità tragica e di un esodo infinito, che dura da sempre. Soprattutto in quel mondo mediorientale dove la ferocia del nemico e l’odio non hanno mai fine. Ieri il tiranno era Erode, oggi i nomi sono diversi, e troppi. A subire la persecuzione, più di tutti, ancora e sempre i bambini. Destinati spesso al dolore e all’abbandono.
Quel presepe in fuga, con Giuseppe, Maria e il piccolo Gesù a dorso di asino che ricorda la strage degli innocenti, ci riporta, nella vicinanza del Natale, a due fondamentali riflessioni.
Prima riflessione: la miglior festa non sta nell’opulenza dei doni e della tavola, ma nei sentimenti di pace e amore che dovrebbero comporre ogni piccolo contrasto, seppellire gli egoismi e suggerire di percorrere la strada dell’altruismo e non quella dell’odio e del conflitto quotidiano. E questo vale nella scala dei valori privati, ancor prima che in quella dei valori universali che riguardano tutti.
Seconda riflessione: i deboli e i non amati che osserviamo in tivù dal salotto di casa sono anche tra noi. Se offende l’indifferenza per i piccoli che ci guardano coi loro occhi spauriti, gonfi di malinconia, ancor più umilia la loro – e nostra – dignità, l’indifferenza per gli anziani emarginati da case civili e benestanti. Spesso abbandonati dalle famiglie, da loro accudite per anni, appena danno segni di cedimento, in luoghi in cui, il più delle volte, non hanno chiesto di entrare. E dove il conforto fatica ad arrivare. Soprattutto ora che il Covid chiude le porte in faccia a tutti, togliendo, anche ai parenti ben consapevoli, la possibilità di ogni contatto fisico.
Ma il Natale dovrebbe essere per tutti. Mentre il cerchio attorno al tavolo addobbato appare sempre più ristretto a pochi, come un club esclusivo di invitati doc.
“E Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società. È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale”. (Madre Teresa di Calcutta).
You must be logged in to post a comment Login