Quanto a modelli di organizzazione del lavoro, è certo che nel PreCovid non torneremo e che nel PostCovid non siamo ancora arrivati. In attesa degli sviluppi, val la pena cominciare a buttare qualche sasso nello stagno.
“Il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi. Il pericolo del futuro è che diventino robot”, così scriveva Erich Fromm in “La psicoanalisi della società contemporanea”. “La verità dell’asserto è sotto i nostri occhi: comandati dalla televisione, dalle mode, dall’opinione comune, ci imbattiamo spesso in orde di ‘replicanti’ che ripetono gli stessi gesti, le stesse moine, le stesse parole”, così commenta Gianfranco Ravasi, in “Scolpire l’anima – 366 meditazioni quotidiane”, p. 356.
Un contributo all’insegna del “siamo uomini o robot?” avrebbe un certo non so che di affascinante, di intrigante, di provocatorio. Ma, in tutta onestà, preferisco lasciare questo tipo di analisi agli esperti. Vengo dunque al punto. Avendo sperimentato un anno e passa di lavoro a distanza e di team virtuali, mi sento di appartenere di diritto a una di quelle orde di “replicanti” di cui parla il Cardinal Ravasi.
Attenzione: senza la tecnologia sarebbe stato ben più difficile far fronte alle restrizioni imposte dal lockdown, dobbiamo ammetterlo senza se e senza ma. Un esempio tra i tanti: i virtual team, gruppi di persone che interagiscono tra loro al fine di conseguire un obiettivo comune, pur essendo distanti fisicamente, temporalmente o strutturalmente. In buona sostanza, essendo collegati solo grazie all’uso di un’interfaccia tecnologica. Orbene, è innegabile che in molte situazioni la virtualità del team non ne ha affatto condizionato né l’efficacia né l’efficienza: si sono messi a fuoco degli obiettivi, si è definito un metodo, si è lavorato per steps, si sono prodotti dei risultati di valore. Ma è altrettanto evidente che il modello non abbia prodotto solo rose e fiori: schermi oscurati, finte presenze, interventi logorroici, collegamenti instabili, … per non dimenticare le manone inflazionate e i pollicioni opportunistici. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Chi non si è sentito replicante faccia un passo avanti!
La sintesi è immediata, fin scontata. Non possiamo affrontare le grandi sfide organizzative del futuro sulla base di quanto è successo nel periodo del lockdown, che ha rappresentato un contesto di sperimentazione del tutto anomalo, forzato, faticoso ma anche, per certi aspetti, “comodo”. Prendiamo l’esempio degli esempi: lo smart working. Acqua sotto i ponti ne deve passare ancora tanta prima di mettere a fuoco dei corretti punti di equilibrio tra lavoro in presenza e da casa. Dove per “corretti” si intende “istituzionalmente corretti”, cioè in grado di contemperare le esigenze gestionali delle aziende con le situazioni di vita delle persone.
In poche parole, la sfida organizzativa emergente è quella dello “strabismo”.
Imprenditori e manager (e non solo loro!) dovranno attrezzarsi per gestire simultaneamente formalizzazione e relazioni umane, rigore e libertà di azione, produttività aziendale e soddisfazione dei bisogni dell’individuo. Saranno chiamati a investire sui pilastri della performance lavorativa, ponendo il focus sui fattori abilitanti (a cominciare dalle competenze) prima che sugli strumenti. Per essi, diventerà fondamentale dare alla tecnologia quello che è della tecnologia, senza perdere di vista (se non rafforzando) il contributo di dimensioni organizzative fondamentali come la condivisione degli obiettivi istituzionali, la responsabilizzazione dei collaboratori, la diffusione dei valori aziendali, la formazione continua, la job rotation…
Siamo all’inizio di una new age dei modelli organizzativi. Prenderne coscienza, analizzarne le determinanti, studiarne le implicazioni, diffonderne i contenuti… rappresentano i passi necessari per non subirne passivamente gli effetti. In buona sostanza, per non viverla da replicanti.
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