Nato a Siena nel 1883, Federico Tozzi condusse una vita travagliata, per ragioni economiche e per le difficoltà incontrate a inserirsi negli ambienti letterari; solo verso la fine dell’esistenza Borgese gli tributò un riconoscimento caloroso per il suo lavoro, che può ritenersi un itinerario dal frammento al romanzo, dall’autobiografismo d’impronta lirica all’oggettivazione di personaggi e vicende di convincente realtà umana, tanto da farlo considerare post mortem un degno erede di Verga.
Isolato ed estraneo alle mode ed ai gruppi letterari, Tozzi recepisce gli orientamenti dell’epoca. Una prova caratterizzata dal frammentismo è offerta con Bestie del 1917. Impressioni, meditazioni e spunti lirici si riconducono al mondo della campagna con la sua dura fatica per uomini ed animali. Ben altro discorso concerne le opere successive (Tre croci e Con gli occhi chiusi, del 1920; Il Podere, del 1921), vere e proprie storie dal chiaro impianto narrativo.
Il Podere, proprietà di Giacomo Selmi, nei pressi di Siena, è ereditato dal figlio Remigio, ma non per regolare via testamentaria, essendo rimasto sino alla sua morte in conflitto col padre per dappocaggine e mancanza di spirito di iniziativa. Giacomo invece era riuscito a triplicare quanto a sua volta aveva ricevuto. A contendere l’eredità si appresta però subito Giulia, la ragazza di campagna “magra e gialla, quasi rifinita, con i denti guasti e lunghi, un’aria stupida e gli occhi del colore delle frutta marce”, da serva divenuta amante del padrone. La promessa fatta da Giacomo alla seconda moglie Luigia, gelosa, di mandarla via non è stata mantenuta. Si è acceso altresì un vivo contrasto, odio, tra la ragazza e Remigio nel corso di più di sette anni, per cui Giulia, spentosi Giacomo, viene espulsa, senza avere avuto l’opportunità di avere garantite alla presenza di un notaio le sue “spettanze”.
Giulia intenta causa agli eredi col pretesto di essere creditrice di ottomila lire (il falso sarà avvalorato in sede legale grazie alla testimonianza di un tipografo e di un sensale). Remigio ritiene di doversi insediare nella proprietà, ma si rivela sempre più inadeguato nella gestione di un patrimonio che si va sempre più impoverendo. La matrigna Luigia, personaggio querulo e scialbo, è solo intesa a garantirsi la sua quota legittima. Gli assalariati, sempre più stancamente votati alla fatica, non offrono la dovuta collaborazione, pronti ad arraffare anche miseri beni (solo Picciolo tenta di farglisi amico, mentre Berto, che si rivelerà il suo spietato e torbido assassino, gli si ribella e non gli dà tregua).
Remigio è tradito anche dall’antico amico di scuola, l’avv. Mino Neretti, che approfitta della sua sprovvedutezza per fargli sottoscrivere cambiali a ripetizione di fronte a spese alla fine soverchianti, che non gli danno mai tregua col loro crescendo. Una disistima corale accompagna i vari momenti di vita del protagonista nelle sue disavventure, tutti ne presagiscono o avvertono la caduta progressiva e ne puntualizzano la sua remissiva scontrosità. Si susseguono piccoli, ma significativi incidenti, del decadere delle fortune agricole: un furto di ciliegie, il fieno ammuffito per un violento acquazzone, i covoni del grano dati alle fiamme per l’odio inveterato del sensale Chiocciolino, l’aborto di una vecchia vacca troppo sfruttata. E l’incubo implacabile del trascinarsi della causa con Giulia e delle pretese salariali più o meno motivate. Mirabili comunque sono i quadri di una natura, nella cui atmosfera si oggettivano la solitudine e il pessimismo, che accompagnano cose e persone. Squarcio convincente quello della fiera del bestiame.
Quella di Tozzi è una lingua scarna, castigata, asciutta, nell’accettazione di un reale, che trascende il velo della pietà. L’utilizzazione di elementi lessicali derivati dal parlato senese, il periodare spezzato e teso, con frequente ricorso al punto e virgola, isola certe indicazioni, caricandole di significati. Non ci si rivolge certo alla lezione dannunziana, quanto a Verga.
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