Carlo Verdelli appartiene al novero dei maestri di giornalismo. Repubblica, Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera, Sette, Epoca, Vanity fair l’hanno avuto come direttore o vice. È stato anche il primo direttore editoriale per l’offerta informativa della Rai. Nel libro “Acido – Cronache italiane anche brutali” (editore Feltrinelli) ripropone una quarantina d’articoli scritti al modo cronistico che un tempo era la regola, e oggi meno. Ovvero: cercare, rovistare, buttare per aria le verità ufficiali, senza trascurare alcun dettaglio, anche a costo (appunto) di essere brutali. Dove brutali sta per precisi, tenaci, puntigliosi nella documentazione da offrire al lettore. Ogni articolo ha una chiosa, un “Segue”, che lo aggiorna nella contemporaneità. Ne vien fuori lo spaccato rivelatore di cos’è stato questo Paese e di com’è rimasto. Per cortese disponibilità dell’autore, ecco un brano del capitolo “La fila per il pane, in cravatta”.
Povero è una parola triste, che ha perso dignità nel tempo. Povero non è più il contrario di ricco ma l’opposto di vincente. Chi è povero ha perso e quindi sta fuori dal gioco, nessuna o pochissime possibilità di rifarsi, sempre meno. L’ascensore sociale si è bloccato da anni e ormai funziona solo in discesa, dai piani bassi ai sotterranei.
Gli “aventi bisogno” sono una marea che monta e che, sulla spinta di un anno e mezzo di pandemia, ormai esonda. La povertà assoluta, quella dove ogni bisogno minimo è un problema (mangiare, curarsi, coprirsi), si allarga come una macchia senza argini; nel 2010 riguardava il 4,2 per cento della popolazione, nel 2020 era più che raddoppiata (9,4 per cento, 5 milioni e 600mila persone), e chissà dove arriverà, con l’eredità pesante di 800mila posti di lavoro già persi da quando il virus ha accelerato brutalmente la divisione già in corso tra salvati e sommersi, tra chi ce la farà e chi ha smesso anche di sperarci. Il sismografo della Caritas, piazzato sulle strade d’Italia, registra che quasi una persona su due di quelle che chiedono aiuto non era mai venuta prima (alle mense, nei centri d’ascolto).
Li vedi, gli ultimi arrivati nel girone dei retrocessi, ingrossare le fila nei posti dove ti danno un sacchetto di cibo gratis, o dei vestiti, delle medicine che ormai sono fuori dalla tua portata economica. In trincea con loro, anche 1 milione e 300 mila tra bambini e ragazzi, altro numero che se lo vedi scritto magari non impressiona ma che trasformato in un’immagine corrisponde ai residenti di Milano. Un miracolo al contrario, popolato di minori che, fra l’altro, rischiano di non finire le scuole, nemmeno quelle dell’obbligo, candidati a un futuro senza futuro. Finché è una statistica, per quanto allarmante, la povertà indigna ma non impegna. Ma quando prende corpo e rischia di esondare, allora il problema non è più soltanto umanitario. Diventa (o non diventa) l’orizzonte delle scelte di un governo. Tenere insieme il treno Italia “whatever it takes”, a ogni costo, oppure accettare la perdita dei vagoni di coda, attutendo il distacco con misure tampone: tra un’opzione e l’altra, passa il confine dell’Italia che verrà.
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