Sarà capitato a tutti, credo, di essersi trovati in situazioni di incontro in cui non si sapeva bene come muovere il nostro corpo, adattarlo alle circostanze, rispettare le consuetudini e le opportunità. Devo dire che d’istinto io sono portato ad esprimere la felicità di un incontro, la volontà di mostrare vicinanza, con baci, abbracci, strette di mano e quanto di più fisico permettono le circostanze.
Ma in molte occasioni mi sono trovato in situazioni imbarazzanti. Ricordo in Giappone, anni fa negli uffici della direzione della Makita Tools, volendo esprimere la mia cordialità nell’incontrare l’amministratore delegato giapponese, mi ero avvicinato allungando la mano alla italiana. Mi ero fermato per tempo davanti alla risposta: un inchino a 30 gradi. Ingenuità occidentale, la mia, nell’aver pensato che non si usasse più questa tradizione degli inchini in una multinazionale, sostituita da un caloroso saluto con una stretta di mano. Solo dopo, a cose fatte, l’interprete si era prodigata in spiegazioni: l’inchino Eshaku prevede l’inclinazione del busto a quindici gradi per non più di cinque secondi, l’inchino Keirei prevede un angolo a trenta gradi e l’inchino Saikeirei a quarantacinque gradi, artrite permettendo. Angolo e tempo differiscono, in sostanza, in base al grado di cortesia richiesto. Ogni incontro diventa un problema matematico.
Tutta questa premessa per arrivare a parlare dei ripetuti imbarazzi in cui mi sono trovato in tempo di Covid. Toccare, non toccare, stringere mani, non stringerle. Per noi italiani toccarsi nei saluti è cosa normale, abbiamo fatto fatica a rinunciarci in questo tempo di pandemia. Questa rinuncia, scrive Beppe Severgnini sul Corriere della Sera, “Per noi è stato un piccolo dolore. Siamo una nazione tattile”.
Ci siamo tutti trovati di fronte a saluti diversi e a volte strani. Accanto a chi senza farsi problemi ci accoglie con calorose ottimistiche strette di mano (magari seguite da inondazioni di Amuchina, perché non si sa mai) ci troviamo di fronte a inchini, mani in preghiera davanti al petto, mani giunte davanti agli occhi, palmo aperto sul cuore, movimenti inconsulti delle mani, torsioni del busto, simulazione di genuflessione, rotazione delle mani aperte “modello Regina Elisabetta” e altro ancora. E viene spiegato che una volta è il saluto Nop del Laos, un’altra è il saluto Wai thailandese, che a me sembrava uguale. E poi l’Anjali Mudra, “ saluto di gratitudine alla presenza divina che è in ognuno di noi”, come mi hanno chiarito. E che anche qui mi sembrava un po’ uguale agli altri, ma non fa niente. Uno che mi ha salutato con un pugno chiuso in aria all’altezza dello sguardo, cioè un po’ più in basso del pugno chiuso delle foto di Mimmo Lucano, mi ha illustrato che era il saluto tradizionale del popolo Kanouri della parte sud orientale del Niger. Ecco, questo mi mancava proprio.
Tralascio il “gomito contro gomito”, imbarazzante nelle contorsioni, o il “pugno contro pugno”, come nei film delle gang americane. O addirittura il “piede contro piede”, con l’età rischioso per il femore. La mano alzata rischia se troppo estesa l’accusa di apologia di fascismo. E ancora (è ancora Severgnini a scriverlo) il peggiore è “ il saluto con il dorso della mano: un notaio finisce per sembrare una geisha e non va bene”. E qui di questi tempi si entra in un campo minato, rischiando l’accusa di essere politicamente scorretti accostando notai e geishe.
In conclusione: se ha sentito la necessità di parlarne anche il Sole 24 Ore del 4 giugno scorso, vuol dire che il problema, o almeno l’imbarazzo, esiste davvero. Come salutarsi in ufficio, in azienda? Come riscrivere le regole nelle linee guida? Il quotidiano economico ha perfino interpellato la professoressa Laura Dudley della Northeastern University per capirne di più. E la conclusione è stata più semplice del previsto: sdrammatizzare. E farsene una ragione.
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