Il G20 a Roma ha messo sul palcoscenico mondiale l’Italia che ha strappato dai vari leaders degli applausi in parte di circostanza ma in gran parte reali e sentiti. Il motivo principale è che Draghi ha fatto tutt’altro che da tappezzeria lavorando efficacemente per soluzioni concrete. Ma ci sono altre ragioni fra cui tre in particolare.
La prima e più immediata ragione è stata l’ordine pubblico, ben gestito nell’occasione dal ministero dell’Interno. La seconda è il successo ottenuto fin qui contro la pandemia da tutti apprezzato. La terza è data dal fatto che con la transizione di governo in corso in Germania e con la lunga vigilia elettorale in Francia, l’Italia è chiamata a giocare un ruolo stabilizzatore e propulsivo in Europa.
Il pensiero corre subito all’efficienza e al prestigio di Draghi e alla dignità e caparbietà di Mattarella. La crisi dei partiti ha messo il capo del governo in una posizione di forza tanto da far sembrare il suo tempo come quello di un vero e proprio “premierato”: vale a dire che stiamo sperimentando una sorta di premier anziché il tradizionale presidente del Consiglio.
Perché si è arrivati a questo punto? In primis a causa di questa disastrosa legislatura iniziata nel 2018 con un risultato foriero di grossi guai ma non così sorprendente per gli errori e le insufficienze della classe politica e dirigenziale in senso lato. A causa, cioè, di un’involuzione dei partiti molto spesso (non sempre per fortuna) più inclini a dare ascolto agli orticelli di casa, ai propri elettorati tradizionali, agli interessi immediati di chi alza la voce trascurando le crescenti marginalità sociali piegate e “piagate” dalle ineguaglianze.
Non è un problema solo della politica ma della società italiana nel suo insieme e del suo establishment burocratico e produttivo che tuttavia la politica dovrebbe orientare. Lo dimostrano le voci spesso egoistiche e corporative che si levano da Confindustria e da altri settori forti, e qualche volta perfino dai sindacati quando guardano molto di più ai loro associati che ai giovani e a chi sta ai margini o decisamente fuori dal “sistema”.
Al di là delle evidenze molto positive a cui accennavo all’inizio, il “tempo” di Draghi sarà stato assai positivo se sarà riuscito a consolidare un contributo al senso dello Stato, ad una statualità che metta in rilievo la vacuità dell’identità strombazzata dai partiti se e quando non finalizzata “all’arte del governo” che raggiunge i suoi obiettivi con i necessari compromessi.
Quanto a Draghi stesso, la domanda ripetuta mille volte è se sia meglio spendere la sua autorevolezza internazionale a Palazzo Chigi o al Quirinale. Questo dibattito si scalderà ulteriormente nelle prossime settimane.
Penso che il suo modo di essere e la sua azione possano essere più utili, fino al 2023, da presidente del Consiglio (cioè da premier): per implementare il Pnrr, per mantenere forte la struttura del governo e per dare una spinta ai partiti verso un sano pragmatismo piuttosto che verso lo sventolio delle bandiere fine a sé stesso.
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