Quando ho letto che il centro vaccinale della Schiranna sarebbe stato smantellato ho avuto una reazione che mi ha stupito. Avrei dovuto sentirmi sollevata: è segno che l’obiettivo è stato raggiunto, che la maggior parte della popolazione è stata vaccinata, che il virus farà sempre meno vittime. Invece mi è dispiaciuto, come se se ne andasse un amico. Ci ero stata solo due volte, in occasione delle due dosi vaccinali, eppure sapere che c’era era una sicurezza, una presenza protettiva e familiare.
Tanti i motivi che me l’hanno fatto apprezzare.
Anzitutto l’accoglienza. La prima sensazione positiva che si aveva entrando nel piazzale nasceva dalla gentilezza degli operatori: le indicazioni precise del soldato all’ingresso, il sorriso dei ragazzi che facilitavano il parcheggio, la disponibilità degli Alpini in congedo, la pazienza dei giovani dell’accettazione. Adesso i ricordi negativi cominciano lentamente ad appannarsi, ma venivamo da più di un anno di martellamenti quotidiani sul numero dei contagiati e dei morti, sull’efficacia o la pericolosità dei vaccini, sui colori delle regioni con le relative limitazioni: l’ansia, anche se non si voleva ammetterlo, aveva cominciato a lavorare nel fondo di ciascuno di noi, facendo apparire come ostacoli difficili da superare anche i gesti della vita quotidiana. Essere accolti da persone sorridenti e professionali funzionava meglio di un sedativo.
Poi l’organizzazione. Indicazioni chiare ed efficaci, percorsi facili da seguire, tempi e spostamenti calcolati con precisione ma senza trascurare le eventuali criticità, coordinamento perfetto tra medici ed infermieri. In poche parole, la competenza e l’attenzione di tutti.
E questo, oltre ad infondere sicurezza, è stato per me motivo di orgoglio: la prova che anche in Italia – dove, secondo uno stereotipo, la creatività si confonde con l’approssimazione – è possibile ottenere in breve tempo risultati di grande efficienza. Ma soprattutto mi ha riempito di orgoglio e di riconoscenza la dedizione con cui tutti hanno lavorato, sotto i tendoni e all’aperto, con ogni tempo. Molte volte ho pensato a loro, sapendoli in quel piazzale senza neppure una pianta nelle giornate caldissime, oppure sotto i nubifragi che trasformavano il terreno in un pantano e rischiavano di allagare la stessa struttura: ai ragazzi del gruppo Ghe sem, agli anziani Alpini in congedo, alla Protezione Civile, ai medici e agli infermieri che aggiungevano altre ore al loro lavoro, già pesante, senza mai perdere la lucidità e l’attenzione; e poi pensavo ai soldatini (mi scuseranno il diminutivo, ma in quei casi mi sentivo materna) che non potevano lasciare la posizione neppure sotto gli acquazzoni. Altro che soldatini! Loro, come gli altri, sono stati grandi. Ecco perché mi dispiace che se ne vadano: trasmettevano solidità e sicurezza.
Per quel che può valere, voglio dire a tutti loro: grazie, siete stati eccezionali, ci mancherete.
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