Meditando sulla pandemia e sulle sue conseguenze, ci è data l’opportunità di considerare la crisi generale in cui ci siamo a sorpresa imbattuti. Non come un invito alla resilienza, come da più parti sollecitato, cioè alla ripresa del modello di sviluppo in corso, bensì ad operare un taglio netto (questo il senso di kairós, dal greco keiro, tagliare), a raggiungere attraverso il discernimento la rottura con un’involuzione sempre più pericolosa.
Il rimpianto di un’epoca creduta felice nel coronamento di ogni bisogno, di una libertà senza limiti e senso di responsabilità per tutti gli individui, si è rivelato con ogni evidenza un’illusione ottica, priva di prospettiva. Pertanto la crisi non può che sfociare nel kairós, da collocare nello spazio e nel tempo. È il monito, lo stimolo che Papa Francesco continuamente ci rivolge con documenti e allocuzioni, perché l’esperienza del dolore, dell’attuale tragedia di tanti e il nostro senso di creatività si aprano a ben diversi orizzonti a salvezza del genere umano, sempre più a disagio nel disastro ecologico crescente.
È il tempo giusto, decisivo, l’occasione per ovviare al crescente squilibrio tra povertà e fame delle masse, dei diseredati e gli offensivi privilegi crescenti di una esigua minoranza, che mal si avvale di un’economia tra l’altro malata e di una tecnica sempre più aliena dalle possibilità di controllo per travolgere ogni criterio di ordine e di giustizia.
La consapevolezza dell’abisso deve essere un campanello di allarme per ogni spirito che aneli alla salvezza. Nella Seconda Lettera ai Corinzi (6,1) Paolo ci sprona ad accogliere ben disposti il tempo della grazia. È un evento imminente, un’emergenza, che può anche essere il segno della maturità. Nella rivoluzione dell’Apocalisse all’esordio, che questo tempo di rinascita genera, di nuova vita, si dice ch’è breve, vicino.
E non è tempo da scandire in secondi, ore, minuti, giorni, quantitativo, bensì qualitativo. Si accompagna a quello del giudizio, ultimo e irrimediabile. Questa rivoluzione trascende la storia e ogni stanca vocazione all’abitudine, alla ripetitività. Non più il profitto che spoglia la terra, l’inquinamento che avvelena l’atmosfera, il caldo che arroventa le foreste, sciogliendo i ghiacci per annientare le città costiere, il proliferare d’aborti di natura. La ricostruzione non è alle porte, le epidemie si incalzano a vicenda.
La durezza dei tempi non può incoraggiare la stasi attonita, la fuga o una continua trasmigrazione senza speranza. La storia non può configurarsi nel segno di Sisifo, vittima del caso o del destino. Se ogni passaggio d’epoca propizia il rimpianto e la malinconia, dobbiamo scuoterci, riconquistare la dignità delle persona, aprirci a un’alba nuova, comunitaria, che trascende la storia, mentre le dà finalmente senso, perché nell’amore, nel dono è l’autentica verità rivoluzionaria.
Purtroppo, il sovranismo nelle sue varie declinazioni imperversa, il lavoro spesso soggiace a logiche di puro sfruttamento senza garanzie di sicurezza e a salari umilianti, le conferenze sul clima si riducono a indicazioni, non comportano seri e urgenti impegni, le devastazioni dell’ambiente impoveriscono senza remissione potenzialità e ricchezze naturali, gli incendi coprono sempre più vaste zone del pianeta di ceneri e abbandono.
La politica dimentica sempre più le sue vocazioni sociali e si disperde nel labirinto del chiacchiericcio e degli interessi di casta. Il cielo si fa sempre più oscuro: uomo, è tempo di destarsi, perché ogni dilazione di interventi chiave, ogni fuga dalla responsabilità, che è di tutti noi in qualche misura, figli della società del benessere, può avvicinare a una catastrofe da incubo.
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