Nel 1952 presso Vallecchi in Firenze Mario Tobino pubblicava “Le libere donne di Magliano”. Laureato in medicina, specialista in neuropsichiatria, l’autore vi dirigeva come primario l’Ospedale provinciale psichiatrico di Lucca. Bianchi corridoi di calce, cortili a giardino, ancora conventuale, Tobino, che per la follia non amava, pur se costantemente aggiornato, la terminologia iperscientifica, o peggio mitico-filosofica, intratteneva cogli alienati un rapporto profondamente umano, ispirato a intelligenza dei sentimenti e degli istinti, mostrando sottesa una pietas radicale. Di fronte al manicomio-caserma, tradizionale, consegnatogli da un tempo inveterato, coi padiglioni allineati come prigionieri rassegnati, il nostro scrittore concepiva la necessità di un progetto destinato a creare un’atmosfera di comprensione e riadattamento sociale collo scopo di un recupero non soltanto a livello medico, ma anche psicologico, lavorativo e comunitario. Non più centro e dominio dell’istituzione il blocco cosiddetto ospedaliero. Come ogni paese organicamente inteso, non in senso discriminatorio, l’ospedale deve avere una piazza, con i laboratori e le officine in cui i ricoverati, qualora siano in condizione di farlo, si rendano utili alla collettività e soprattutto recuperino quella dignità che è garanzia dei diritti elementari di ogni persona.
Questo l’incipit del romanzo: “Oggi è arrivata, proveniente da Firenze, una malata, una matta, giovane, fresca, alta, con lo stampo della salute fisica. Quando sono entrato nel reparto, era seduta a letto e mangiava con golosità. Aveva la camicia aperta,, sì che le si vedeva comodamente un seno. Non aveva alcun pudore, neppure la finzione del pudore. È affetta da schizofrenia, quella malattia mentale che scompone la persona umana, rendendola senza senso e senza scopo”. Ma per Tobino anche i malati di mente sono creature degne di stima, rispetto, amore. La tensione della fantasia, le manifestazioni delle pulsioni, i vizi e le virtù di ogni donna sono rappresentati con un linguaggio espressivo molto pragmatico. Il romanzo procede a strappi, suddiviso in tante storie, percorsi narrativi insoliti; ci dà una suite di bozzetti, ritratti, frammenti. A taluni momenti narrativi altri corrispondono di intonazione più riflessa. Se nelle altre opere di Tobino i personaggi dominavano lo scorrere quotidiano degli eventi ed era impossibile collocarli e percepirli senza riferimenti realistici ora il romanzo è come un lungo poema che esprime al contempo una realtà crudele e il tentativo di fuga da essa.
La passione è insorgenza verticale della natura nell’orizzonte della storia. Le donne ne offrono un concretissimo emblema nel mistero ed hanno rappresentato la natura conservatrice fin nelle tempeste con la legge di ripetizione che presiede alle concezioni ed ai parti. Tobino, anche in altre opere, le trova bellissime, con gli occhi come finestre spalancate dell’irrazionale, avviso dell’altro mondo. Le loro figure gli ritornano, l’ossessionano ; il basso continuo è colto nella sensualità. Facile ricordare la giovane amazzone livornese, che riemerge dal regno delle ombre con la sua vita di libera fanciulla, la professoressa aristocratica tormentata da fantasie erotiche, la chiromante napoletana, le due sorelle col delirio di persecuzione. Note toccanti: “bruna, bellissima, la gola lupina; la Sbisà ha gli occhi molto belli, neri, sempre lucidi di malinconia, di sopportazione, stranamente brilla di profonda letizia”. La provenienza di queste sventurate è principalmente di gente contadina e della piccola borghesia provinciale in un’aria di rustica famiglia, non con l’impressione di un giorno del giudizio tra grandi sogni e deliri e incidenti infantili. Il segreto di ciascuno è sotto un sigillo soprannaturale. Tobino qui come altrove si rivela sensibile alla parlata della sua terra, più che nelle parole,comunque, nel disegno e nel movimento popolaresco. In certi verbi si avverte un trasporto d’azione oltre misura.
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