Sono molte le emozioni che, in queste ultime settimane, sono nate sulla spinta del ritiro delle forze Nato dall’Afghanistan.
Senza essere particolarmente esperti di politica internazionale è evidente a tutti che venti anni di occupazione militare non hanno prodotto né la scomparsa del fondamentalismo islamico né, tanto meno, importato la democrazia di tipo occidentale in un paese tradizionalmente chiuso come l’Afghanistan.
Negli anni sessanta l’Afghanistan era la meta ambita dei giovani americani e europei alla ricerca di nuove esperienze e mondi alternativi. Negli anni sessanta le donne di Kabul frequentavano l’Università, erano moderne, vestivano all’occidentale, portavano la minigonna e viaggiavano.
Negli anni sessanta in Afghanistan c’era una monarchia che voleva modernizzare un paese ancora chiuso e condizionato dalle vicende tribali e dagli obblighi religiosi e, per questo si ispirava ad Ataturk e alle sue politiche.
Ma nel ‘73 il tentativo di modernizzazione monarchico viene spazzato via da un golpe ordito da un cugino del sovrano che instaura la Repubblica, cugino che, tuttavia, subirà la stessa sorte ad opera del partito comunista afghano che nel ‘78 prende il potere. Poi è storia conosciuta. I “rivoluzionari” si sparano tra loro e interviene così l’Armata Rossa nel ‘79 che occupa il paese sino all’89 quando è costretta a ritirarsi per effetto della guerriglia dei mujaheddin, sostenuti dagli americani e dall’impossibilità di continuare lo sforzo economico di una occupazione del genere.
Nel ‘92 cade l’ultimo presidente comunista del paese, arrivano i mujaheddin e dopo di loro i talebani che governano fino al 2001 quando, a seguito dell’attentato alle torri gemelle arrivano le forze USA e della Nato.
Il resto è storia recente. Gli accordi di Doha di Trump proseguiti da Biden hanno di fatto riconsegnato, dopo venti anni, il Paese ai Talebani.
Appunto è storia recente, una storia che però apre a domande e riflessioni su di noi, sul nostro concetto di democrazia, sulla nostra incapacità e sul nostro modello di approccio a mondi e paesi distanti dai valori occidentali, valori che, illuministicamente, riteniamo condivisibili, universali e non capiamo perché sono rifiutati da 2/3 del mondo.
Una storia recente che però è anche fatta, soprattutto, di una umanità dolente. Una umanità dolente che è già presente nel nostro Paese e che è fatta dai profughi portati anche con l’ultimo ponte aereo, ma anche di quell’umanità rimasta a Kabul e nel resto del Paese asiatico e che, dopo venti anni di democrazia e stile di vita occidentale, si trova riportata in una civiltà che noi giudichiamo del medioevo, senza diritti e che vede le minoranze etniche e le donne i nuovi paria.
Tempo fa vidi un film che ricostruiva la vicenda dei finanziamenti americani ai mujaheddin. Fatto bene, con Tom Hanks e Julia Roberts, ma che si concludeva con una amara verità. La guerra contro la Russia Sovietica e il regime comunista afghano era stata vinta con miliardi di dollari, ma la pace, la costruzione della pace era stata persa in partenza (come di fatto la storia attuale ci dice) perchè di soldi per ricostruire il Paese distrutto da una durissima guerra civile gli americani e i loro alleati non seppero metterli pensando di aver finito il lavoro (sporco) con la sola cacciata dei “rossi”. Così si crearono solo i presupposti perché i talebani potessero prendere il potere prima e ora.
Insomma, il dramma dell’Afghanistan non è di oggi, ma nasce con l’uccisione dell’ultimo segretario del partito comunista al potere nel paese. Puoi vincere le guerre, ma se non spendi altrettanti soldi sulla pace ti ritrovi presto nella stessa condizione e ricadi nelle barbarie. E chi ne subisce le conseguenze è l’umanità dolente che quel paese esprime. A queste persone va la nostra solidarietà concreta.
Va il nostro aiuto perché noi siamo comunque responsabili di un fallimento materiale e morale. Della non riuscita e di progetti incapaci di radicare valori in grado di essere amati e condivisi. È per questo che come Amministrazione abbiamo detto da subito che noi, a differenza di altri comuni nel passato, non alzeremo barricate per dire di no ai profughi afghani. Non diremo non li vogliamo. Ma, come sempre, come abbiamo già fatto, faremo la nostra parte. Perché anche noi siamo responsabili di ciò che i nostri governi non sono stati in grado di fare per quel povero Paese che è oggi l’Afghanistan e lo faremo anche a TV spente, perché è così che ci si comporta quando si guarda al di là di ogni muro e di ogni mare, verso gli altri, altri che non sono “diversi”, ma semplicemente persone.
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