Un vecchio libro del 2002, “Il libraio di Kabul”, Sonzogno editore, pur lontano dalla cronaca, può aiutarci ad avere una originale chiave di lettura degli avvenimenti passati e recenti dell’Afghanistan. Autrice una giornalista norvegese, Asne Seierstad, arrivata a Kabul al seguito dell’Alleanza del Nord dopo la caduta del governo talebano. Appena trentenne aveva già alle spalle un’esperienza di inviata di guerra per aver raccontato nel 1998 la guerra in Kosovo come corrispondente della televisione pubblica norvegese NRK.
La storia di questo libro è singolare: appena giunta a Kabul la giornalista norvegese aveva conosciuto Sultan Khan, un libraio che aveva cercato di raccogliere e salvare migliaia di libri sulla cultura afghana nel periodo in cui i talebani avevano preso il potere in Afghanistan. Per caso Asne Seierstad aveva conosciuto la sua storia e quando aveva deciso di scrivere un libro su questa esperienza, il libraio Sultan Khan le aveva fatto una proposta imprevista: vivere ospite della sua famiglia per tutto il tempo necessario alla stesura del libro. Un’occasione unica, sorprendente, per cogliere dall’interno di una famiglia tradizionale afghana le storie quotidiane, la mentalità degli uomini, la vita intima delle donne. Durante tutta la primavera successiva alla caduta dei talebani, Asne Seierstad era stata così accolta “come la figlia bionda” nella famiglia del libraio di Kabul.
Era diventata in questo modo testimone diretta di un mondo spesso difficile da comprendere con le chiavi di lettura occidentali. La giornalista norvegese, si legge nella prefazione, “è testimone di amori proibiti, di matrimoni combinati, di crimini e punizioni, di ribellioni giovanili, della severità con la quale la società islamica governa la vita di ciascuno, soprattutto delle donne, umiliate e oppresse ma piene di dignità e onore”.
“Abbiamo vissuto molti momenti divertenti insieme – scrive Asne Seierstad – ma di rado mi sono sentita tanto arrabbiata con qualcuno come con loro, di rado ho litigato con tale accanimento come ho fatto con loro. Non ho mai avuto tanta voglia di picchiare qualcuno. A provocarmi era sempre la stessa cosa: il modo in cui gli uomini trattano le donne. La superiorità maschile era in loro tanto radicata da essere raramente messa in dubbio”.
Attraverso il dettaglio quotidiano, raccontato come in un diario, si possono cogliere il modo di pensare, i ruoli e i drammi della quotidianità di una famiglia afghana.
“Per quanto riguarda me – prosegue la giornalista norvegese – venivo considerata una sorta di essere ermafrodito. In quanto donna occidentale potevo stare sia con le donne sia con gli uomini. Se fossi stata un maschio non mi sarebbe stato permesso di vivere la vita familiare come ho fatto. Potevo evitare di rispettare i rigidi canoni dell’abbigliamento delle donne afghane. Nondimeno ho spesso indossato il burka più che altro per essere lasciata in pace: una donna occidentale per le strade di Kabul attira un’attenzione davvero indesiderata. Da dietro il burka potevo finalmente fissare senza essere fissata di rimando. Ho indossato il burka anche per comprendere meglio cosa vuol dire essere una donna afghana. Cosa vuol dire doversi accalcare nelle ultime tre file sovraffollate riservate alle donne quando l’autobus è mezzo vuoto. Cosa vuol dire doversi raggomitolare nel bagagliaio di un taxi perché c’è un uomo sul sedile posteriore”.
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