Si azzarda che il tot d’astensionisti alle amministrative sarà una cifra. A causa di tre motivi. Perché (1) la pandemia non è finita e resiste il timore d’infilarsi in un seggio elettorale dove transitano centinaia/migliaia di persone. Perché (2) i politici sono giudicati tutti uguali, e siccome tizio non si dimostrerebbe migliore di caio o sempronio, appare inutile distinguere e votare. Perché (3) i candidati a sindaco e consigliere comunale fanno prevalere chiacchiere vaghe su proposte concrete e dunque, incapace chicchessia d’esser persuasivo, vadano tutti all’inferno.
Direte: qualunquismo spicciolo. Certo che sì. Ma diffuso. Entrate in un negozio o in un caffè, salite su un mezzo pubblico, girate in qualche ufficio, fabbrica, scuola, eccetera: ascolterete spesso la stonata cantilena. Il livello di disinformazione è alto, pareggiato da eguale inedia: zero impegno per saperne di più. L’unica attenzione si rivolge a quanto succede nel proprio condominio, cortile e dintorni. Levare lo sguardo a una realtà più grande e complessa, no. Prevalentemente no.
L’augurio è che in extremis il rinsavimento prenda gl’inclini a disertare le urne. Convincendoli che: 1) vaccinazioni e conseguente green pass garantiscono la sicurezza massima laddove si esercita il diritto elettorale: 2) c’è differenza tra candidato e candidato, basta leggerne storia individuale, precedenti professionali e/o partitici, credibilità dei titoli presentati qualora si tratti d’un esordio; 3) d’idee pragmatiche ne circolano, accanto a ballon d’essai lanciati a scopo illusionistico. Pure in tal caso verificare è facile. Così come volgere gli occhi al passato lontano e vicino della propria città, per capire quando e chi s’è preso la briga di fare e non solo di chiacchierare. L’esempio di Varese, un grande cantiere aperto dopo decenni di chiusura, viene semplice da indicare. E dunque: proseguire l’opera d’interesse comunitario o smantellarla con un ‘ciaone’ gravido d’incognite?
Se questo poco servirà a smuovere dal divano i molti renitenti a schienarsene, il vantaggio sarà collettivo. Rifiutare la partecipazione rappresenta un danno grave a sé stessi, prima che agli altri. Di peggiore c’è solo l’abusato vezzo, dopo la rinunzia a una scelta, di persistere nella critica. Si chiama viltà. La viltade dantesca che suggestionò il Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: “Vi dico che chi sta neutrale conviene che sia odiato da chi perde, e disprezzato da chi vince”. Al lordo delle esagerazioni umorali, un netto di perdonabile auspicio. Per scongiurarlo, basta uscire dall’ignavia. O dall’indecisione. Non sottraendosi a un obbligo civico e morale, mica a una qualunque opportunità.
Ps
Nel primo blitz propagandistico a Varese, Salvini smentì l’esistenza di due Leghe. I successivi fatti han dimostrato il contrario. Il segretario critica ogni giorno Draghi, per recuperare i consensi protestatari sottrattigli dalla Meloni. Giorgetti fa l’opposto: sostiene il premier e lo promuove a “nostro De Gaulle”. Ne vede (febbraio 2022) il subentro quirinalizio a Mattarella, ma senza immediato ritorno alle urne, come vorrebbe il Capitano. Meglio un governo sotto l’ombrello di Marione presidente della Repubblica, che porti il Paese alla scadenza naturale della legislatura (primavera 2023). Chi il premier? Forse Di Maio, forse lo stesso Giorgetti, se le amministrative bocceranno il tandem Conte-Salvini. Sconfitta che spaccherebbe, oltre all’M5S, la Lega. Sovranisti da una parte, bavaresi dall’altra. Bavaresi? Sì, gli aderenti a un partito simile alla Csu tedesca. Area centrista, cattolica, liberalmoderata, riformista, pragmatica. Partecipanti: Lega ex/post Nord, Forza Italia, Italia Viva, altri disposti all’impresa. Vedrà chi vivrà. Specialmente chi sopravviverà alle amministrative. Ecco perché Salvini ne ha una paura bestiale.
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