Sino all’ultimo, i tedeschi erano stati rassicurati da Badoglio e da Vittorio Emanuele III: sul loro onore, avevano confermato la fedeltà dell’Italia all’alleato tedesco. Anche quando, nel pomeriggio dell’8 settembre del 1943, le agenzie straniere iniziarono a far circolare la notizia dell’armistizio italiano, il generale Mario Roatta dichiarò all’ambasciatore tedesco si trattava di una manovra propagandistica delle potenze avversarie.
Fu il generale Dwight “Ike” Eisenhower, che, alle 17:30, da Radio Algeri (erano le 18:30 in Italia), lesse un comunicato, con il quale si annunciava la cessazione delle ostilità tra le forze armate delle Nazioni Unite e quelle italiane. A quel punto l’Agenzia Stefani, contattò subito il ministro della Cultura popolare ed il ministero degli Esteri per avere conferma di quanto era stato diffuso dalla Reuters poco prima delle 18. Dai ministeri giunse una smentita.
Per una definitiva conferma, tutti dovettero aspettare l’annuncio che Badoglio fece dai microfoni dell’Eiar alle 19:42. Era arrivato in via Asiago, a Roma, sede della radio, in abiti borghesi. A partire dalla sera dell’8 settembre, nei comunicati della Wehrmacht comparve la parola Verrat, cioè «tradimento». Dopo una serie di convulse telefonate tra Roma e Berlino, la Germania diede il via alla Operazione Achse (cioè “Asse”), il piano elaborato da tempo, nella previsione di una uscita dell’Italia dalla guerra. Nelle ore immediatamente successive all’annuncio ufficiale dell’armistizio, le truppe tedesche disarmarono, solo nel territorio italiano, 82 generali, 13mila ufficiali e 402mila soldati. In totale, su tutti i fronti di guerra in cui erano impegnati i militari italiani, i tedeschi disarmarono circa 1milione di soldati, catturandone 810mila e deportandone 615mila. Inoltre, le forze armate tedesche requisirono 16mila veicoli, 900 veicoli corazzati e 5mila cannoni. Lo storico tedesco Gerhard Schreiber, cui si devono questi dati, ha osservato che quella italiana «fu l’ultima vittoria della Wehrmacht».
Come si sa, cinque giorni prima di quel tragico 8 settembre, alle 17:30, in una tenda collocata nella campagna di Cassibile, il generale Giuseppe Castellano firmò il cosiddetto armistizio breve. Nelle foto che hanno immortalato quell’evento, Castellano è l’unico militare in abiti borghesi. A Cassibile, nel siracusano, fu firmato il cosiddetto armistizio “corto”. Quello “lungo” fu invece firmato al largo delle coste di Malta, il 29 settembre, quando ormai Vittorio Emanuele III, Badoglio e il governo si erano messi in salvo, fuggendo di soppiatto dalla capitale e abbandonando Roma al suo destino.
In quel 29 settembre, sulla corazzata britannica Nelson, il generale Eisenhower e il maresciallo Badoglio sottoscrissero le 44 clausole, che si aggiungevano a quelle definite nel documento di Cassibile. In questa circostanza, interlocutore del Regno d’Italia furono le Nazioni Unite, cioè l’insieme degli Stati in guerra contro Germania, Italia e Giappone.
Fra le clausole definite a Malta, alcune meritano di essere ricordate. La n. 29, contemplava l’arresto e la consegna alle Forze delle Nazioni Unite di Mussolini e dei suoi principali collaboratori; la n. 30, lo scioglimento di tutte le organizzazioni fasciste nonché il licenziamento ed internamento del personale fascista; la n. 31, l’abrogazione di tutte le leggi italiane che implicavano «discriminazioni di razza, colore, fede od opinioni politiche». Le leggi razziste erano restate in vigore durante tutti i 45 giorni del governo Badoglio.
Solo il 13 ottobre 1943 il Regno d’Italia dichiarò ufficialmente guerra alla Germania.
Per alcuni, nell’8 settembre del 1943 si sarebbe consumata «la morte della Patria»: le modalità con cui si giunse all’armistizio e la repentina dissoluzione dell’esercito, della monarchia e dello Stato, rappresenterebbero il punto più acuto di quella crisi dell’idea di nazione, che avrebbe caratterizzato tutta la storia italiana del dopoguerra.
In realtà per molti rappresentò, al contrario, la riscoperta di una diversa idea di Patria ed un diverso sentimento di identità nazionale. Questa nuova idea di Patria, diversa e più vera da quella spacciata dalla martellante propaganda fascista, è la stessa che, durante gli anni della guerra, aveva quasi istintivamente percepito un professore del liceo di Alba, il filosofo Pietro Chiodi, il quale, osservando la scuola in cui insegnava inondata dalla luce, annotava nel suo diario:
«Sento che è una piccola parte della mia Patria. Quella parte in cui io sono chiamato a compiere il mio dovere verso di Lei. È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me, alla mia intelligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sacrificio».
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