Solo qualche giorno fa un consigliere leghista del Friuli ha espresso la convinzione che ai migranti bisognerebbe sparare, “I migranti? Io sono uno di quelli che gli sparerebbe a quella gente lì”, ha detto così Antonio Calligaris, in Consiglio regionale del Friuli Venezia-Giulia, rispondendo ai militanti di Casapound, entrati in aula per protestare contro l’immigrazione. Non è né il primo né l’ultimo caso del genere, anche se poi quasi tutti un po’ ritrattano, un po’ si scusano e un po’ precisano, ma la sostanza di questi atteggiamenti xenofobi rimane e s’istilla la convinzione che il contrasto all’«altro» sia un qualcosa dotato di senso, che debba essere fatto. E che faccia quasi parte della naturalità delle cose e che liberarsi di queste presenze ingombranti sia un fine giusto da perseguire.
Senza accorgersi che noi, proprio noi, siamo quella stessa cosa che vorremmo estirpare. Noi, proprio noi, siamo il prodotto di una società multietnica, tra le più multietniche che si conoscano, dal momento che ci troviamo a vivere in una terra attraversata da sempre, per ragioni prevalentemente geografiche, da migrazioni incessanti, che affondano alle radici della storia del genere umano. Oggi la cultura identitaria dell’Ottocento considera tutto questo un fattore di negatività, mentre non lo è mai stato nel passato. Quando Plutarco, il biografo vissuto al tempo dell’impero romano, narra della fondazione della nuova città di Roma, ricorda che già allora la città era una congerie diversissima di lingue, costumi e stili di vita, ma capaci di stare insieme con costrutto. Una convivenza che assume un valore simbolico nel racconto delle operazioni di tracciatura dei confini della città, dove la prima operazione, quella fondante, non è quella conosciutissima della realizzazione del solco con l’aratro – che è anche stata lo spunto per un’infinità di opere d’arte – ma il momento che lo precede, quando il fondatore scava una fossa circolare nel terreno e poi la fa riempire dai coloni con una manciata di terra proveniente dal proprio territorio d’origine, perché venga mischiato con quello degli altri. Solo dopo avviene il passaggio con l’aratro che traccia la fossa, dove porre le fondamenta delle mura.
Sallustio, vissuto nel I sec a. C., nelle Catilinarie dice quasi le stesse cose, quando ricorda le origini multietniche della città che nasce “dall’incontro tra genti dispari genere, dissimili lingua, alius alio more viventes” (genti di genere diverso, di diversa lingua e di diversi costumi). Dunque, la civitas, l’essere parte di una collettività, non discende da un patto fondato su un’omogeneità etnica, linguistica o territoriale, “ma è solo e unicamente il prodotto della concordia, ossia dalla comune adesione allo ius” (Corbo, 219). Non è la difesa dell’identità a tenerci insieme, ma lo iuris consensus e utilitas communio, la condivisione di regole comuni e il raggiungimento di utilità condivise, come intuì Cicerone… qualche anno fa. Regole e utilità condivise capaci di stare a fondamento dello sviluppo di una società durata più di mille anni, in forme mai raggiunte, né prima né dopo. Mi pare sia ancora questo il punto su cui lavorare, non serve a nessuno pensare alle fucilate. Vogliamo riparlarne?
You must be logged in to post a comment Login