Nove anni senza Peo… Sì, sono già trascorsi nove anni da quel 16 settembre 2012, quando Peo Maroso ci ha lasciato dopo una malattia, forse trascurata nella fase iniziale, che non gli ha lasciato scampo.
Che cosa abbia rappresentato Pietro Maroso per il calcio biancorosso è presto detto: è l’unico ad avere vinto con il Varese come giocatore, come allenatore e come dirigente, in assoluto il personaggio più rappresentativo della lunga storia biancorossa.
Certo, Franco Ossola, varesino purosangue, è un’icona assoluta e giustamente gli è stato intitolato lo stadio di Masnago; ma Ossola disputò solo una decina di partite con la maglia del Varese prima di diventare una delle leggende del Grande Torino.
La carriera di calciatore di Peo Maroso è una lunga ed estenuante gara a inseguimento, culminata però con l’approdo in serie A a trent’anni suonati, dopo una gavetta cominciata nel peggiore dei modi. Nella stagione 1952-53, infatti, Maroso, appena diciottenne, è sul punto di esordire in serie A con la maglia granata del suo adorato Torino; complice un’epidemia influenzale, metà dei giocatori della prima squadra sono costretti a letto alla vigilia della trasferta di Udine e il giovanissimo terzino sinistro (fratellino di Virgilio, perito a Superga qualche anno prima insieme con Franco Ossola e con tutto il Grande Torino) viene allertato. Una visita medica prima del debutto, però, rivela un vizio cardiaco che non solo cancella il sogno dell’esordio ma pone fine, sia pure momentaneamente, alla sua carriera. Visite più approfondite, più tardi, permettono a Peo di tornare in campo ma solo a livello amatoriale, prima in una squadretta torinese (Madonna in Campagna) e poi alla Fossanese. Quando si ha conferma che il suo cuore in realtà sta benissimo, è un po’ tardi ma… non tardissimo. L’Ivrea, in serie C, gli offre l’occasione di ricominciare con il calcio che conta e Peo ripaga il club con quattro stagioni da primo attore, sempre in serie C. Nel 1963 l’approdo al Varese per il capitolo decisivo della sua carriera e della sua vita. Prima il debutto in serie B, con l’immediata vittoria nel campionato cadetto 1963-64, poi finalmente la serie A da protagonista (debutto il 13 settembre 1964 a Masnago contro l’Inter in quella che è anche la prima partita in assoluto del Varese nella massima serie nazionale: finisce 0-0). Sei le sue stagioni in maglia biancorossa (quattro in serie A e due in serie B, entrambe concluse con la promozione). Ed è inutile dire che, sin dalla sua prima esibizione in maglia biancorossa, il suo impegno, la sua dedizione, il suo ardore agonistico ne fanno un beniamino assoluto della tifoseroia.
Poi, sempre in biancorosso, l’inizio della carriera di allenatore (e della collaborazione con il professor Enrico Arcelli), prima con la Primavera e poi con la prima squadra. E da allenatore Maroso scrive altre pagine indimenticabili di storia biancorossa, compresa l’ultima apparizione sul palcoscenico della serie A nella stagione 1974-75 (l’atto finale l’11 maggio, Varese-Napoli 0-2). Peo sarà sulla panchina del Varese sino al 1978, per poi tentare la sorte, senza fortuna, al Genoa e alla Sambenedettese ma per ricevere grandi gratificazioni a Legnano e a Novara, per poi fare rientro al Varese, nel 1986, con la chicca della promozione in C1 nel 1990 e chiudere con la “tenuta a battesimo” di Gian Piero Ventura a Venezia nel 1993.
Da dirigente, voluto al vertice del Varese da Riccardo Sogliano e poi confermato da Antonio Rosati (prima presidente e poi presidente onorario, ma chi potrebbe rinunciare a questa icona?), Maroso è ancora protagonista della straordinaria scalata dalla C2 alla serie B realizzata con Beppe Sannino in panchina. Preziosa la sua esperienza in molte circostanze, preziosi consigli e suggerimenti a questo o quel dirigente, tecnico o giocatore.
È bello pensare che le ultime partite del Varese a cui Peo Maroso ha potuto assistere siano state a un livello consono a ciò che lui aveva contribuito così fattivamente a realizzare prima da giocatore e poi da allenatore.
A Maroso è dedicata oggi la curva nord dello stadio intitolato a Franco Ossola, da anni ormai mestamente sbarrata. Sarebbe cosa ben fatta se, nel decimo anniversario della sua scomparsa, la città pensasse a qualcosa di più significante…
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