L’appuntamento per l’intervista era alle cinque del pomeriggio in un edificio della prima periferia di Peshawar, la città prossima al confine afghano sulla strada che porta ai mille metri del Kyber pass, la storica arteria di collegamento tra Afghanistan e Pakistan. Da giorni aspettavamo una conferma o un diniego da quello che era considerato il leader emergente del fondamentalismo politico afghano, “l’ingegnere” Gulbuddin Heckmatyar. Come spesso accade in questi casi ci precedeva un auto con a bordo quattro moudjahidin, i combattenti del popolo che allora fieramente si opponevano agli invasori sovietici. Era un pomeriggio di metà ottobre dell’82. Armati di fucili mitragliatori ci fecero percorrere stradine assurde, tra muri diroccati, casette fatiscenti, canaletti di fogna a cielo aperto. Un fuori e dentro estenuante in un indistinto groviglio di vicoli.
Quando furono certi di averci a sufficienza disorientati, i guerriglieri si fermarono davanti a un edificio bianco sorvegliato da altri loro colleghi dall’aria abbastanza amichevole. Eravamo finalmente arrivati nelle sede del partito Hezb è islami, l’ala più estremista dello schieramento fondamentalista islamico dell’epoca, molto presente nella complicata e dolorosa realtà dei campi profughi afghani disseminati lungo i 2200 chilometri del versante pakistano della frontiera. Già allora Gulbuddin, di etnia pashtun maggioritaria in Afghanistan, contendeva la leadership al rivale tagiko Burhaniddin Rabbani, professore di teologia islamica e leader relativamente più moderato del movimento Jamiat – e Islami cui faceva riferimento anche Il Leone del Panjchir Ahmad Shah Massud. Finalmente dopo aver attraversato una stanza in penombra colma di guerriglieri accovacciati sul pavimento, Heckmatyar ci ricevette con una certa cordialità precisando subito di essere noto come “l’ingegnere” perché prima dell’invasione sovietica aveva studiato ingegneria all’Università di Kabul. Poi la scelta militare e politico religiosa aveva prevalso.
Ci fece subito notare che quello afghano era un popolo contadino, organizzato in tribù, che non si era mai riconosciuto nello stato – nazione. Alle popolazioni – disse – una comune identità culturale la fornisce la religione mussulmana. Se aggredita dall’esterno, nonostante le divisioni etniche, la società contadina afghana sa reagire con grande forza. Fece una lunga pausa poi guardando dritto nella telecamera della nostra troupe Tsi, aggiunse: “È molto chiaro quello che stiamo cercando, noi stiamo lottando per creare un regime islamico puro. Noi non abbiamo bisogno di imitare alcuna altra nazione. Seguiamo l’Islam perché l’Islam non è la religione di una nazione ma è la religione in assoluto”. Aveva soltanto trentacinque anni e davanti una promettente carriera politica.
Un percorso il suo segnato da tante ombre e ambiguità, da sanguinose faide interne alla galassia fondamentalista, da giri di valzer “diplomatici” dentro e fuori i confini del suo paese. Fu tra i padri fondatori del movimento talebano che vide la luce proprio nelle scuole coraniche dei campi profughi e ne favorì l’organizzazione come movimento politico militare ostile alla modernizzazione e a ogni allentamento della più conservatrice tradizione spirituale e culturale islamica. È stato protagonista della sanguinosa guerra civile del ’94 che costò migliaia di morti. Per un breve periodo fu anche primo ministro. Con il rivale Rabbani alla presidenza. Ha attraversato la successiva stagione del mullah Omar, quella delle basi terroristiche di Al-Qaeda e dell’Iss e la guerra americana conseguente al terribile attentato alle Torri Gemelle. È stato sostenuto e poi avversato dal Pakistan e dall’Iran dove si era autoesiliato.
La pubblicistica parla di lui come di uno spietato e astuto “signore della guerra”, ma anche gli osservatori più informati dell’eterna crisi afghana lo davano ormai da tempo in fuori gioco. Invece è riemerso dalla pieghe della storia complicata e dolorosa del suo paese, a fianco dei nuovi governanti, tra i quali, come è noto, spiccano ex terroristi di chiara fama, pare in veste di consigliere di lunga e collaudata esperienza. Oggi Gulbuddin ha settantaquattro anni. Il tempo ha affilato il suo viso enigmatico incorniciato da una barba bianca ben curata. La vecchia volpe della jihad è tornata ancora una volta alla ribalta.
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