Mi è capitato per le mani un cimelio librario che tra qualche secolo finirà menzionato come fonte da qualche storico del costume e delle mentalità.
Si tratta de Il saper vivere di Donna Letizia, uscito nel 1960 per Mondadori. Donna Letizia – pseudonimo di Colette Cacciapuoti, 1911-1996, coniugata in prime nozze con un cugino dei fratelli Carlo e Nello Rosselli e in seconde con Indro Montanelli – era una scrittrice e curatrice di rubriche per donne su quotidiani e riviste, prima del gruppo Mondadori e poi Rizzoli.
Per un lettore odierno, è un libro di archeologia sociale, culturale e comportamentale, scritto prima del tracollo rapidissimo di un mondo che fu travolto dalle spinte anticonformiste e liberatorie dei movimenti giovanili e da quelle equitarie del mondo del lavoro, due universi rimasti sempre estranei e sconosciuti alla scrittrice. Il libro è un manuale, o meglio un compendio, del bon ton altoborghese, destinato alle mogli e madri ma sullo sfondo di una mondanità incentrata sulla famiglia, con la sua rispettabilità, le sue liturgie, i suoi riti e le sue divisioni dei compiti tra i due sessi. Non c’è nessuna messa in discussione, da parte di Colette Cacciapuoti, delle distanze incolmabili, anche nei minuscoli dettagli dei comportamenti, tra il ceto borghese delle imprese e delle professioni concentrate sostanzialmente nel triangolo industriale, e le classi lavoratrici: operai, artigiani, impiegati, maestri o contadini che fossero.
Quel mondo di privilegio sembra vivere in uno stato di sussiegosa e asfittica autosufficienza: e Colette trova tutto questo normale, come trova normale lo stereotipo della donna borghese. Semmai servirebbe un pizzico di modernità, soprattutto in presenza delle nuove usanze imposte dallo sviluppo tecnologico, a partire dal telefono, a cui però il galateo borghese di Donna Letizia seguita a preferire le lettere e i biglietti, la scrittura formale e ben regolata (la televisione viene menzionata solo in riferimento alla donna di servizio, che è bene resti esclusa dalla visione familiare, salvo permessi eccezionali, mentre avrà a disposizione un apparecchio tutto per sé nella sua cameretta o in guardaroba).
Il galateo di Colette ha due diversi registri di interlocutori: è una sorta di Bignami per le famiglie dalla ricchezza consolidata, magari ancora aristocratiche, un libro da ripassare all’occasione quando si nutrono dei dubbi su come comportarsi o curare quel dettaglio; ed è un manuale di studio per i neoricchi, gli industriali di prima generazione che hanno fatto fortuna durante il boom ma che necessitano di essere educati alle regole del bon ton e dell’alta società di cui stanno entrando a far parte non perché copiosamente danaruti, ma perché padroni dello stile, e dunque degni di quell’appartenenza nonostante le frequenti umili origini.
Il centro della vita familiare è la casa, che ospita diverse funzioni: la vita quotidiana dei suoi membri, con il tempo condiviso; la mondanità; il gioco e la socialità degli adulti, in particolare della padrona di casa, colei che riceve, ma altresì, in spazi specializzati, dei figli; la vita della servitù. La donna si cura degli arredi e degli abbigliamenti, governa i lavori della servitù, segue l’educazione e il tempo libero dei figli, organizza le cene e le serate salottiere con contesse, marchese, politici, amici influenti, ecclesiastici (spesso destinatari di opere di beneficienza) e qualche flaneur decaduto a portare un po’ di colore.
La mondanità esterna è una proiezione della vita familiare: le relazioni, le udienze (incluse quelle con il Capo dello Stato e il prelato cittadino), le visite importanti, le amicizie, gli spettacoli, il ristorante, le attività sportive (tennis, golf, equitazione, sci e pattinaggio).
Il sesso e il corpo sono un tabú, in una vita ingessata che previene ogni trappola: la signora non ancheggia, non attrae o ignora gli sguardi altrui e i complimenti dei maschi, salvo che non alludano e siano conformi ai codici previsti. I muggiti dei “vitelloni”, agiati ma grossolani, sono tenuti lontani o, in caso infausto, bellamente ignorati. La discrezione si addice a tutti i membri della famiglia, nell’abbigliamento come nel portamento, nel linguaggio come nella conversazione. Una sterilizzazione sentimentale fatta di riservatezza e di esternazioni rarefatte e meditate, contenute, formalizzate come un cartoncino d’auguri o un necrologio.
Un mondo scomparso, che non rimpiangiamo, anche se può suscitare nostalgia la scomparsa di un codice di buona educazione che noi però vogliamo corredare di sentimenti, di spontaneità e di semplicità e genuinità nell’incontro. Quell’alta borghesia è scomparsa. Il privilegio resta, ma non ha argini. I danaruti di oggi, e i loro imitatori, non si fanno tanti scrupoli: ostentano sé, la loro ricchezza, e del bon ton non se ne fanno nulla. Ma nemmeno noi della lower e middle class che siamo poco interessati allo status e alla scalata sociale, siamo più interessati a quelle prescrizioni minuziose, ai pomeriggi di thé e bridge, agli abiti studiati per ogni occasione. Temiamo la grossolanità, abbiamo orrore dell’esibizione, spregiamo l’ignoranza, abbiamo cura del corpo e della conoscenza, non siamo asessuati, amiamo confidarci, e lasciamo fluida la parola. La forma si fa e si trova, non è mai una prescrizione. E la vita non si riduce a una letizia perbenistica. Altrimenti, oltretutto, “che barba, che noia, che noia, che barba!”. La lettura alla fine diverte, perché ci mostra tutto il grottesco (sia pur elegante) che ci siamo lasciati alle spalle: il conservative chic.
You must be logged in to post a comment Login