Probabilmente la frase che meglio illustra Gino Strada (morto il 13 agosto scorso) l’ha scritta un brillante collega del Corriere del Ticino, Carlo Silini: “Gino Strada graffiava come un gatto randagio. Le occhiaie gonfie di chi ha perso troppe ore in sala operatoria, non qui ma a Kabul, mentre qualcuno bombardava e qualcun’altro saltava in aria”. Per la verità non solo nella capitale afghana ma anche in Iraq, in sud Sudan, in Sierra Leone, in Cambogia, in medio Oriente e altrove. Tuttavia sono Kabul e altre località afghane il simbolo più conosciuto del suo impegno umanitario con Emergency a partire dal 1999. L’ultimo graffio sulla “Stampa” di Torino poco prima di morire. Con tagliente chiarezza, aveva ricordato come gli Stati Uniti in diciotto anni di presenza abbiano sborsato miliardi di dollari con esiti disastrosi. Se quegli enormi capitali fossero andati veramente all’Afghanistan – aggiungeva – oggi quel paese di sicuro sarebbe una grande Svizzera. Anche se qualche ricaduta positiva nella sanità, nel sistema scolastico, nelle libertà personali dei cittadini in particolare per donne e ragazze, c’è indubbiamente stata. Miglioramenti che hanno interessato soprattutto città di immensa storia e cultura come la capitale, come Herat e Mazar – i -Sharif.
Solo briciole sono invece arrivate nell’altro Afghanistan, quello inospitale delle vallate dell’Hindukush affondate nella neve per gran parte dell’anno, quello delle distese pietrose verso l’altipiano iraniano, quello del deserto di sabbia del Registan, quello delle impervie aree tribali del Nordest, a cavaliere tra Afghanistan e Pakistan, che da sempre sfuggono a qualsiasi controllo dei rispettivi governi. Trentaquattro province, 653 mila chilometri quadrati, 38 milioni di abitanti, 55 gruppi etnici (Pashtun, Tagiki, Hazara, Uzbechi i più numerosi) che parlano una ventina di lingue diverse. Da sempre un territorio cuscinetto tra la Cina, l’India, l’Asia centrale e l’Europa, abitato da tribù molto bellicose e che tali sono rimaste. Anche la storia recente lo dimostra. Dall’inizio dell’800 la Russia zarista e la Corona britannica hanno dovuto fare i conti con queste popolazioni indomabili pagando prezzi altissimi in termini di vite umane per cercare di garantirsi un passaggio in India attraverso il Khyber pass, “la porta delle Indie”.
Quello che all’epoca venne definito il Great Game, il grande gioco dell’Asia centrale durato più di un secolo, riprese vigore negli anni ’70 del novecento quando a Kabul prese il potere, dopo una faida di colpi di stato interna ai “comunisti” locali, il regime filosovietico di Babrak Karmal che avrebbe dovuto agevolare il sogno sovietico di uno sbocco diretto al mare, già coltivato dagli zar di San Pietroburgo. È. in quella lontana estate del 1979, dunque più di quarant’anni fa, che gli americani, presidente il democratico Jimmy Carter, cominciano a finanziare e ad armare, per interposti Egitto, Pakistan, Arabia Saudita e altri, gli oppositori interni all’Urss, i moudjahidin, i cosiddetti combattenti del popolo decisi a pagare qualsiasi prezzo pur di scacciare i sovietici e rimanere padroni in casa propria. E così è a partire dalla notte di Natale del’79 quando le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan. Per dieci anni, fino all’89, si fronteggiano l’Armata rossa, per la prima volta chiamata ad imporre la “pax sovietica” all’esterno del campo socialista, e un esercito di popolo male equipaggiato, organizzato per bande, lacerato al suo interno da rivalità religiose, tribali e personali ma fermamente deciso a fermare l’invasore.
È. la guerra santa. Con Peshawar, nel nord- ovest pachistano a pochi chilometri dal confine, che diventa approdo di tre milioni di profughi afghani spinti dai combattimenti in oltre trecento campi lungo i 2000 chilometri della frontiera. La città è anche sede del primo ospedale della Croce Rossa internazionale, una struttura di fortuna che accoglie tutti i combattenti, ma anche civili devastati dalle mine russe antiuomo, mutilati e orrendamente straziati. Arrivano dopo giornate di viaggio a dorso di asino e di cavallo quasi sempre in condizioni disperate. In un dossier del 2001, dopo dodici anni di permanenza e di servizio agli ultimi tra gli afghani “l’uomo di buona volontà” Gino Strada, il ruvido chirurgo di guerra, scrive che il bilancio del conflitto sovietico – afghano registra un milione e mezzo di morti e un milione di mutilati mentre il territorio è disseminato di milioni di mine pronte ad uccidere chiunque. Peshawar è, ovviamente, anche un crocevia di spie, di trafficanti d’armi e di droga – la coltivazione dell’oppio era già fiorente allora – di terroristi e aspiranti tali nel nome dell’Islam. È. lì nei campi profughi che il movimento talebano, fondato e animato dagli elementi più fondamentalisti della resistenza anti russa, si radica, si irrobustisce e mette le basi del proprio futuro istruendo e addestrando migliaia di ragazzini in età scolare.
Li ricordo sotto enormi tendoni bianchi, negli sterminati campi di Noma Dola, di Bajour, di Kacha Ghari (ottobre 1982), ripetere ossessivamente per ore e ore i versetti del Corano sotto la guida di implacabili mullah che sanzionavano ogni distrazione con dolorosi colpi di canna di bambù. Molti di quei lontani ragazzini fanno oggi parte del movimento talebano come dirigenti, quadri e militanti. Gli Stati Uniti non prestano tuttavia grande attenzione alla bolla estremista che cresce e si consolida attraendo i jhadisti di mezzo mondo. È lo spaventoso attentato di vent’anni fa (11 settembre 2001) alle Torri Gemelle a incrinare gli accordi sotto traccia con gli americani e a determinare i loro attacchi ai Paesi sospettati di sostenere il terrorismo internazionale che aveva in Osama Bin Laden la sua icona planetaria. Dura vent’anni la presenza Usa e quella dei paesi Nato, ed è proprio in questo lasso di tempo, dove da una parte e dall’altra si pagano prezzi altissimi, che i talebani si rafforzano distinguendosi sempre di più dai moudjaidin che furono determinanti nel costringere i sovietici alla ritirata. Dal profilo ideologico i “taliban” si rifanno al wahabismo sunnita teso alla ricerca della purezza originaria dell’Islam. Con pazienza hanno atteso per anni la decisione del disimpegno statunitense infiltrando per ogni dove uomini di loro fiducia che hanno contribuito in maniera decisiva a svuotare le già fragilissime strutture di uno stato che da sempre si è costruito attraverso l’equilibrio delle etnie e dei clan. In buona sostanza una struttura feudale ostile a ogni forma di centralizzazione del potere a Kabul a cominciare da quello militare. E ciò spiega, almeno in parte, il clamoroso sgretolamento delle forze armate dove le diserzioni sono state la regola come, del resto, la cessione degli armamenti e dei mezzi di trasporto ai talebani combattenti pronti a riprendersi il controllo del Paese e a reintrodurre, come sta avvenendo giorno dopo giorno, le leggi coraniche ulteriormente appesantite da feroci tradizioni tribali.
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