Sono elezioni importanti quelle che si terranno ai primi di ottobre, un po’ ovunque in Italia, perché riguardano molti capoluoghi come Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli, oltre alla regione Calabria e dunque si tratta di un test significativo, anche sotto il profilo numerico, perché mobiliterà una quota considerevole di cittadini italiani. Un test elettorale di peso, anche perché gli schieramenti politici cercheranno di misurare davvero le forze in campo e potranno valutare con mano se le percentuali che si leggono nei sondaggi corrispondono a verità, oppure se valgono di più le sensazioni che si percepiscono a pelle. Quel che si legge sui giornali mostra scarti quasi impercettibili tra un partito e un altro, con avanzamenti e regressi settimanali, legati a fenomeni contingenti, all’emozione, al desiderio di prendere parte ad una battaglia politica piuttosto che ad un’altra. Anche per far baruffa. Poi, però, quando si va a votare, spesso la gente rimette i piedi per terra, perché alla fine, quel che importa è il confronto con la realtà quotidiana, che ti presenta sempre il conto e quindi in molti pensano se non ci sia modo di “organizzare un fronte comune per affrontare i grandi cambiamenti che tutti aspettano”.
Chi saprà interpretare quest’aspettativa, avrà in mano gli strumenti per modificare notevolmente il quadro politico, oggi estremamente frammentato, soprattutto nel centro-sinistra, perché per ora non si intravede una prospettiva comune, che sia percorribile, chiara e convincente. Questa tornata elettorale toccherà anche Varese. Numericamente parlando, si tratta di una città di medie dimensioni, ma che in un passato recente è stata, con grande discrezione, uno dei centri propulsivi per lo sviluppo industriale di questo paese. Con industrie di tutti i tipi dall’elettronica, alla componentistica, dal settore areo spaziale, alla chimica, alla farmaceutica. Senza mai farsi notare mai troppo, è una città che può vantare di essere ancora l’undicesima area manifatturiera d’Europa “con un valore aggiunto industriale superiore ai tre miliardi di Euro”(Fonte: Confindustria Varese).
Tuttavia, ora che questo ciclo produttivo virtuoso sta rallentando (ed è in via di mutamento), come è normale che sia, per qualunque realtà industriale dopo un certo numero di anni, la città s’interroga da un bel pezzo sul suo futuro. Cerca di capire quale possa essere il passo da tenere all’interno di una nuova realtà in profondo cambiamento, che non è solo italiano, dove l’unica cosa chiara è che non è affatto chiaro a nessuno quale sia la strada del futuro, per cui, fare oggi delle previsioni attendibili è “come studiare la neve nel mezzo di una valanga” (Agar).
Di certo, è del tutto inutile immaginare e far credere, soprattutto, che si possa replicare – qui e altrove – il miracolo che portò anche Varese negli anni ’60 a diventare una potenza industriale. Fu un miracolo frutto di tante circostanze irripetibili: costi del lavoro bassissimi, una forza prorompente e incontenibile di volontà di rinascita dopo le sofferenze patite con la guerra, insieme ad un certo liberismo, con cui si lasciò la possibilità di modificare parti considerevoli del territorio senza nessun controllo, in nome di quel laissez faire teorizzato da un certo mondo della cultura economica. Tutto questo sicuramente contribuì allo sviluppo, ma dovemmo pagare un prezzo altissimo per i danni irreparabili arrecati, un po’ ovunque, al territorio del paese. Tutto questo, nel bene e nel male, non si ripeterà neanche coi fondi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), che pure rappresentano un atout di grandissima rilevanza, su cui è assolutamente vietato sbagliare.
Dunque, quale strada prendere? L’unica via percorribile sembra essere quella di amministrare al meglio quello di cui si dispone, cogliendo le occasioni di sviluppo che si generano spontaneamente sul territorio, evitando d’interferire e, anzi, “sminando” il terreno a chi sta facendo del suo meglio per creare ricchezza e occupazione, ma avendo ben a mente quel che invece è nocivo e quindi da proibire o rimodellare. Si tratta di tenere nel massimo conto quel che il passato ha saputo costruire, non per farne un’icona immobile e distante, ma per considerare quel passato una potenzialità in grado di creare ricchezza. C’è l’industria, c’è l’università, c’è il sistema dei beni culturali. Tra le cose possibili c’è anche lo sviluppo turistico della città che ha da sempre una naturale propensione ad essere un luogo che di suo ha una grande attrattività. Senza aspettare che arrivi Pantalone per creare le condizioni di uno sviluppo di questo tipo, immaginando che ‘prima’ si debbano realizzare infrastrutture che, se va bene, passeranno decenni prima che vedano la luce. Mentre va mobilitata l’iniziativa privata, che può contare su risorse che il pubblico non ha, in modo che attrattività e ospitalità trovino il giusto mezzo per farsi largo nella miriade d’iniziative territoriali molto meno dotate, ma molto più aggressive.
In definitiva, si tratta di sviluppare al meglio il sistema culturale della città. Dove per cultura non s’intende quel colere della latinità classica, riferito al singolo, al sé, alla cultura animi, quel coltivare il proprio spirito, destinato alla crescita della personalità. Ma quell’idea di cultura molto più ampia che ci siamo dati dalla seconda metà del XIX secolo in poi, quando ci siamo accorti che cultura è l’intero complesso di cose all’interno di cui ci troviamo, frutto dell’agire consapevole. Non è solo spettacolo, cinema, canto, teatro e neanche solo beni culturali, e cioè i monumenti e le opere d’arte. Cultura è “quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società” (Tylor, 1871). Da amministrare al meglio e da tradurre in una prospettiva di crescita sociale ed economica. La scommessa è l’industria del bello e della cultura.
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