Riporto l’intervista che ho fatto alcuni anni fa ad Alex, poco prima della gara di handbike a Parabiago, per il libro che stavo scrivendo con mia figlia Rossella, Incontri di Sport. Con me un fotografo d’eccezione, quel Vittorio Ciresa che ha voluto essere presente insieme al sottoscritto, per conoscere da vicino il mitico Alex. Un incontro vissuto sul campo dopo le telefonate di rito. Alex? Un atleta favoloso, disponibile e colloquiale, dotato di una intelligenza molto viva, capace di sorprendere e di attrarre l’interlocutore con la forza di una logica che non lasciava spazi irrisolti. Per oltre un’ora l’ho aggredito con le mie curiosità e lui sempre coerente, attento a non lasciare dubbi irrisolti nell’interlocutore, un uomo e uno sportivo di grandissime qualità umane, capace sempre di andare oltre gl’imprevisti e le disgrazie della vita, uno sportivo tutto d’un pezzo, con una lucidità investigativa di grande spessore umano.
È stato un pomeriggio avvincente di due innamorati di sport, travolti dalla comune passione per un personaggio, Alex Zanardi, capace di regalare sempre un’occasione in più per meditare sull’avvincente bellezza dell’esistenza in tutte le sue sfumature. Quando ho appreso del suo drammatico incidente in provincia di Siena, ho provato un’emozione fortissima e ho pregato per lui, perché potesse superare quel terribile gioco del destino. Seguo ininterrottamente via Internet la notizie che lo riguardano e spero, insieme all’amico Vittorio, che quello straordinario campione, possa un giorno tornare a essere quello che è sempre stato, un uomo e uno sportivo unico, capace sempre di trasformare anche il male peggiore in una straordinaria esperienza di vita da regalare a tutti coloro che hanno un estremo bisogno di credere, per capire che è lottando, che si può ritrovare il sottile filo della speranza.
“Io sono uno che ha sempre cercato di vivere e interpretare lo sport nei suoi valori più alti, perché è solo in questo modo che possiamo diventare degli esempi credibili per tutti coloro che ci guardano, tifano e ripongono nelle nostre gesta le loro speranze”, sono le parole simbolo di Alex Zanardi.
C’è chi li definisce miracoli, chi segni del destino, chi delega tutto al caso, evitando ogni possibile impatto col mistero, chi cerca disperatamente una risposta senza volto. Per Alex Zanardi l’unica verità è la vita, che gli consente di sorridere anche quando il cielo si tinge di nuvole. I piloti di formula uno sembrano costruiti insieme alle macchine, pronti a soddisfare l’ansia del brivido. A volte hanno sguardi seri, studiati, professionali, passi lenti e calibrati, occhi che scrutano i contorni di un mondo dominato da un altalenante rimescolio di emozioni. È in questo clima che Alex vive e coltiva la sua innata passione per l’auto, un amore infinito, presente nel DNA di un giovane nato per affermare la bellezza e la forza dell’ingegneria meccanica, del design industriale, delle leggi che governano il mondo dei motori, dell’amore nei confronti della vita e delle sue meraviglie. Una famiglia romagnola la sua, nata e cresciuta alle porte di Bologna, abituata ai colori forti, quelli che si legano al rosso vivo del Cavallino rampante, a un carattere generoso ed energico, abituato alla fatica, agli ultravioletti di un solleone che nei pomeriggi d’estate brucia la pelle, a ideali che si legano cuore e pancia a un territorio meraviglioso e contraddittorio, al lavoro, alla fede politica o religiosa, al colore del mare, ai verdi rilassanti delle colline, ad antichi sudori contadini. L’amore per il motore nasce in famiglia, quasi per un crudele gioco del destino, che si porterà via prematuramente la sorella. La tragedia diventa eredità, passione, voglia di correre, di battere la sfortuna, l’avversario, per dimostrare che si può lottare e vincere col sorriso sulle labbra, come se quell’intrigante gioco di psicologia e meccanica uscisse da una vocazione coltivata da sempre. Alex corre per una sorta di destino innato. Quel motore che romba e scoppia è dentro di lui, nella sua voglia di misurarsi con gli avversari e con se stesso, con le sue paure e con le sue frustrazioni, con il suo amore per le macchine, con l’eredità passionale di un padre meccanico che lo segue a ogni passo perché crede in lui, un padre che gli prepara il kart prima della gara, come prova d’ amore. Alex, una vita di corsa sui circuiti di tutto il mondo: sfide al limite della sopravvivenza, curve e controcurve, spumante e allori, momenti di solitudine, quando non sai più da che parte ricominciare, perché non riesci a inquadrare un destino diventato improvvisamente nemico, al punto di farti pensare che l’automobilismo non ami la tua dedizione. Jordan, Minardi, Lotus, Williams, meteore brevi, quindi l’America, con la realizzazione di un sogno dove Alex dimostra al mondo il suo valore, quella pervicace determinazione che lo porta a 12 successi nella stagione 97/98. L’America con le sue emozioni, le sue contraddizioni, il suo enfatico surrealismo, la sua esultanza country, gli regala emozioni e vittorie: due Campionati del Mondo e una popolarità riservata a chi vince ad oltre trecentosessanta di media, volando sopra il pericolo e i suoi agguati. Alex, il corridore automobilista che insegue il sogno ed esulta, ma anche l’America con i suoi paesaggi western, con le sue certezze e con le sue ambiguità non basta a trattenere la voglia d’Italia di un Campione romagnolo, munito di quel vezzo linguistico un po’ speciale, che ha il sapore di un tepore nostrano. Torna alla Williams. La sua gioia è alle stelle. Di nuovo in formula uno, di nuovo la grande occasione, ma la macchina non è pari a chi la guida e la vita torna a circondarsi di amarezze, di tradimenti, di momenti bui, nei quali a volte è difficile veder spuntare un raggio di sole, quel respiro lungo e disteso che apre il cuore a nuove speranze e a nuove illusioni. Alex, il campione di go kart; Alex, l’asso della formula hindycart, due volte campione del mondo, eroe dei circuiti americani, cui tutto il mondo dell’auto guarda per quella sua guida veloce e disincantata, è costretto a convivere con gli alti e bassi di uno strano destino. Malgrado tutto vola. Vola regalando emozioni, aspettando la realizzazione del sogno, ma sulla sua strada c’è un destino terribile che l’attende. L’auto del pilota canadese Tagliani centra la sua a 320 chilometri orari sul circuito di Lauztring, in Germania, mentre è messo di traverso sulla pista in attesa di riprendere. Schegge di carbonio volano da tutte le parti. È un big ben di leghe, frammenti, schegge che volano impazzite, mentre la folla ammutolisce. Piloti e meccanici, con la testa tra le mani, scrutano percorsi da un brivido e con occhi sbarrati quel groviglio di pezzi e briciole di lamiere sparsi un po’ ovunque. Un elicottero si alza in volo con Alex Zanardi da Castelmaggiore, mentre il mondo dell’auto trema. Alex è in coma. La notizia fa il giro del globo. Il mondo dell’automobilismo e la gente comune prega per quel giovanotto dai capelli lunghi e dal sorriso smagliante, sempre pronto a dare tutto se stesso allo sport che ama, anche quando è costretto a correre con macchine che non sono all’altezza. Attimo dopo attimo il tempo della speranza si allunga e la voglia di vivere riemerge con quella tenacia che lo ha fatto conoscere alle folle d’oltreoceano. Per giorni e settimane il cuore dei tifosi e della gente comune batte per il campione romagnolo che lotta per vincere la sua gara più bella, quella col destino. Una famiglia meravigliosa accompagna la sua voglia di tornare a sorridere, di vivere una nuova vita senza piangersi addosso, con l’ironia di sempre, con quel sorriso accattivante che minimizza l’incerto e che trasmette speranza. Alex, il ragazzo ribelle di Castelmaggiore, che ama lo sport, è pronto a rimettere i piedi per terra, anche con le protesi: l’importante è ripartire senza lasciare ai neuroni il tempo di rielaborare. La dolcissima moglie Daniela, il figlio, la mamma, una donna dalla forza incredibile e il papà fanno ala e coro al loro campione che, giorno dopo giorno, scrive pagine d’ amore, di coraggio e di grande fiducia nella vita. Alla fine torna. Torna col desiderio di dimostrare che la vita è bella, con l’umana certezza di chi ha sperimentato la forza e la bellezza di uno sport che ha sempre amato. Un carattere straordinario lo riporta nel mondo delle corse, quel mondo senza il quale non riesce a vivere, perché è il sogno di una vita. Si vede diverso, ma non abbastanza per abbandonare la voglia di lottare, di dimostrare che tutto si può, anche senza gambe. Alex Zanardi passa dall’automobilismo all’handbike, dallo sci al nuoto. Torna e vince, dimostrando che si può sempre, anche quando il destino sembra volerti condannare. Alle Paralimpiadi di Londra 2012 conquista due medaglie d’oro e una d’argento nell’handbike, confermando la sua immensa volontà. Alex è il simbolo di chi non si arrende, di chi crede nella vita, di chi regala un sorriso e una speranza a tutti coloro che sono stati colpiti da un destino avverso. La forza dello sport è anche questa, quella di insegnare un metodo, una filosofia, una strategia di vita che non si lascia sopraffare dagli eventi, ma che sa trovare sempre una risposta pronta, anche quando la domanda sembra irresistibilmente difficile, proprio come ci insegna Alex Zanardi da Castel Maggiore.
L’INTERVISTA
Alex, nel tuo caso si può parlare di vocazione?
In ognuno di noi c’è una impronta genetica ben definita. Certamente i motori erano nel mio DNA, per carattere, essenzialmente, ma poi anche per educazione, perché mio padre mi ha trasmesso la passione per le auto da corsa, non perché lui avesse un ruolo specifico all’interno di questo mondo, infatti faceva l’idraulico, ma perché era un grande appassionato, seguiva infatti i Gran Premi di Formula Uno. Sono state tante le domeniche nelle quali io, ancora bambino, piuttosto che andare fuori a giocare con i miei amici, mi fermavo davanti alla televisione a guardare il Gran Premio con mio padre, per cui, quando venni a sapere che esistevano dei piccoli mezzi da corsa, chiamati go-kart, tentai in diverse occasioni di costruirmene uno. Papà faceva l’idraulico quindi io, con dei tubi che lui aveva in casa, tentai di imbastire una sorta di telaio, anche se non prese mai vita completamente. Un bel giorno mio padre tornò a casa dal lavoro e, per una strana coincidenza del destino, decise di propormi l’acquisto di un go-kart in alternativa al motorino, per ché si era fatto l’idea giusta e cioè che tenermi lontano dalla strada, sapendomi in pista con un casco e una tuta, in un luogo pensato, sarebbe stata una condizione ottimale. Tutto, poi, si riconduce a un avvenimento molto triste per la mia famiglia, alla scomparsa di mia sorella, morta in un incidente stradale. Sembrava quasi ironia che mio padre, per tenermi lontano dalla strada, decidesse di comprarmi un go-kart, però è andata così e alla fine io ho condiviso questa sua scelta perché, di fatto, l’obiettivo è stato raggiunto. Tutto questo, naturalmente, senza entrare nel merito della passione che, in seguito, ho avuto modo di sviluppare e che mi ha portato a trasformare quello che era nato come un gioco, in un mestiere. Certo lui non avrebbe mai messo in preventivo il mio passaggio dal gioco al professionismo nell’automobilismo sportivo e forse chissà, se lo avesse saputo, avrebbe fatto una scelta diversa, io, però, non sono per nulla pentito che le cose siano andate in questo modo anzi, sono molto grato al destino perché mi ha dato una grandissima opportunità.
Qual è il vostro ruolo di comunicatori all’interno di un mondo che spesso usa la macchina violando le regole del codice della strada? Che cosa si può fare perché i giovani in particolare capiscano che questa non è la strada giusta?
Premetto che l’unica differenza tra il sottoscritto e altre persone che riescono ad esprimere concetti di buon senso è certamente l’esposizione che io ho e che magari altri non hanno, ad esempio quella chimica che ti consente di farti ascoltare dai ragazzi che poi, tra l’altro, hanno tutto il diritto di vivere la loro età con una buona dose di incoscienza, come abbiamo fatto tutti. Non è detto che un ragazzo di vent’anni disprezzi la vita, per il fatto che corra dei pericoli in modo incosciente, diciamo che tende ad affrontare tutte le cose con molta più incoscienza e quindi è nostro dovere di persone che hanno qualche capello bianco sulla testa e un briciolo di saggezza in più che magari hanno recuperato nel corso della loro esistenza, riconoscere quali siano le insidie e riconoscere i percorsi meno accidentati, sui quali ci si può anche divertire senza rischiare più di tanto. Non ho assolutamente la pretesa di erigermi al ruolo di educatore, ovviamente però la mia vita, per la serie di esperienze che ho accumulato, è abbastanza unica e va da sé che spesso mi venga posta questa domanda, magari di fronte a una marea di ragazzi che è lì non solo per ascoltarmi, ma anche per capire come stanno realmente le cose. Se vuoi comunicare a qualcuno, che già di per sé è un po’ distratto, devi essere rapido e sintetico, però poi rischi di esagerare e questo, a mio avviso, è il problema principale, nel caso in cui si tenti di produrre qualsiasi tipo di comunicazione su temi come la sicurezza stradale, infatti si finisce sempre col parlare di velocità, di abuso di sostanze stupefacenti, per essere catalogati come dei rompiscatole perché, di fatto, la velocità è soltanto una aggravante, ma il vero problema sta nella mancanza di calcolo e di concentrazione. La mancanza di calcolo rischia di porci in un tunnel senza uscita, senza aver nemmeno provato ad allungare lo sguardo per capire se, ad esempio, là in fondo, si passa oppure no. La verità è che siamo molto distratti, quindi il problema non è solo quello di andar forte, ma di essere con gli occhi posati sullo schermo di un telefonino, di scrivere un sms alla fidanzata, questi sono i veri problemi. Se facciamo tutto questo a trecento chilometri all’ora è ancora più pericoloso. I duecento all’ora, di per sé, nel momento in cui abbiamo pensato molto bene al luogo nel quale ci troviamo, come ad esempio un’autostrada completamente vuota, al mezzo che stiamo guidando, una macchina tecnologicamente all’avanguardia, quindi perfetta, a condizioni di traffico assente, si tratta tutto sommato di un’azione ben calcolata, dove l’insidia rappresentata dall’enorme velocità può essere quasi inesistente. Tengo a precisare che con questo non voglio omologare questo tipo di comportamento stradale che, comunque, si pone al di fuori delle regole del codice della strada. Il vero problema è, come detto, l’incoscienza, che non è soltanto dei ragazzi. Purtroppo, molto spesso, ci sono delle persone che fanno delle cose senza rendersi conto minimamente di ciò che stanno facendo, essenzialmente per distrazione. Al gesto della guida non va coniugato nient’altro. Quindi se guidiamo dobbiamo guidare senza parlare al telefonino, senza inviare i messaggini, senza sintonizzare la frequenza della radio, senza addormentarsi al volante pensando ai fatti nostri e guardandoci in giro.
Che cosa potrebbe fare la società per creare un sistema di educazione che passi attraverso la famiglia, la scuola, attraverso quegli ambiti nei quali si gioca il sistema educativo stesso del paese?
Questo è sicuramente il modo giusto per risolvere il problema, certamente rimane da trovare il come, ma è in dubbio che se riesci non a convincere, ma a far capire alle persone che in determinate situazioni si possono proporre coincidenze tali per cui il tuo atteggiamento distratto alla guida, sommato a quello di un altro utente della strada che arriva in senso opposto, che per una sfortunata coincidenza fa appunto coincidere queste due cose nello stesso metro di asfalto, può portare a conseguenze disastrose. Questo è essenzialmente il problema principale, come ci si arriva è difficile a dirlo. Posso portare una esperienza personale; con un gruppo di amici, sul territorio di Padova, dove vivo, abbiamo allestito corsi di sicurezza stradale per i bambini delle scuole, con dei go-kart opportunamente preparati. Coinvolgendoli nel gioco, siamo riusciti a creare un mini circuito con dei cartelli stradali. Trasformare tutto questo in gioco ha dato modo poi ai loro insegnanti di approfondire il tema successivamente in classe e trasformare non soltanto il codice della strada in una bella materia da imparare, ma anche in un elemento interessante su cui ragionare. Perché l’uomo ha deciso che su una strada urbana bisogna andare a 50 all’ora? Bisogna ragionare sulle motivazioni, non affermare che bisogna obbligatoriamente andare a 50 all’ora. Perché in qualche modo abbiamo deciso che quello è il limite più idoneo? Illuminante è stato il ragionamento di un genitore che tornato da me mi ha detto: “Ma lo sa che mio figlio, adesso, quando arrivo al semaforo o allo stop e tiro diritto se vedo che non c’è nessuno, mi dice: “Guarda papà che allo stop bisogna fermarsi””. La nostra distrazione, sommata a quella di altri, ha la facoltà di produrre effetti catastrofici. Occorre tenere gli occhi fissi sulla strada e controllare tutto ciò che avviene attorno a noi, per fare in modo di prevenire la distrazione altrui.
Non pensi che la scuola, in questo sistema, potrebbe avere un ruolo decisivo, soprattutto nel proporre un’educazione e una cultura dello sport, adeguate?
Sono perfettamente d’accordo e per questo credo che dovremmo investire tantissimo per fare in modo che le materie scolastiche non soffrano, eventualmente, a causa di una intensificazione dell’attività e della cultura sportiva. Credo che quest’ultima debba trovare uno spazio proprio per la sua forza educante. Secondo me attraverso lo sport è molto più facile coltivare una passione e la passione è ciò che tende a far emergere il buono che c’è in ognuno di noi. In ognuno di noi, infatti, c’è del bene e c’è del male. Sono il primo ad ammettere che anch’io, se non fosse stato per lo sport, forse sarei stato il perfetto prototipo dello sbandato che affoga le sue frustrazioni o cerca il suo momento di gloria dentro un paio di pastiglie o in fondo a un bicchiere, in discoteca. Fortunatamente ho avuto modo di andare a cercare la passione in pista, la domenica pomeriggio, contro avversari che ho sempre rispettato ma che, proprio per questo, volevo fortemente battere, cercando di farlo in modo sano e così mi sono goduto ogni singolo attimo di tutte quelle fasi di preparazione che mi hanno portato a raggiungere quegli orizzonti che sono diventati un nuovo punto di partenza.
Di te mi hanno colpito l’entusiasmo e la semplicità, la forza del carattere con cui affronti ogni attimo della tua vita, lo sport è anche questo?
Lo sport, in molti casi, è mal pubblicizzato, viene raccontato come se si trattasse di una guida per diventare ricchi, famosi, ricercati dalle ragazze, per cui i ragazzi pensano di intraprendere una attività sportiva desiderando di essere già nelle vesti del campione amato, ricercato e ricchissimo, il giorno dopo. In questo modo non raggiungeranno mai l’obiettivo, perché l’ambizione, per quanto forte possa essere, non porta lontano. L’unica cosa che arrivi a fare, se gli altri girano la testa per guardare da un’altra parte, è allungare la mano per dire: “Aspetta che ti frego, perché voglio arrivare subito là”. Se però porti a casa un trofeo in modo disonesto, nel momento in cui lo appoggi inizia a riempirsi di polvere e potrà essere solo fonte di frustrazione; ecco perché molti atleti, secondo me, sono preda di depressione o di frustrazioni di vario tipo, arrivando addirittura a gesti estremi. Tutto questo è legato al fatto che nella loro carriera sportiva, per arrivare a certi risultati, hanno deciso magari di fare uso di doping, di allungare la mano mentre altri avevano la testa girata dall’altra parte. Che cos’è, invece, che ti fa arrivare comunque a destinazione? La passione! Se tu ami quello che stai facendo, lungo tutta la strada, non potrai mai parlare di sacrificio anzi, più difficile e lungo è il cammino e più bello diventerà ogni giorno il gioco. Io credo di avere avuto la grandissima fortuna di aver potuto trasformare le mie passioni in mestiere, ragionando sempre ed esclusivamente in termini di passione sportiva. Se così non fosse stato non avrei abbandonato l’automobilismo che sicuramente mi avrebbe continuato a dare molta più esposizione mediatica, per passare al paraciclismo, dove spesso chi è qui a fare il tifo sono i meccanici e gli accompagnatori. La mia fortuna è che mi diverte tantissimo fare ciò che faccio, è frutto di una passione incredibile e quando la domenica vinco sono molto contento; ma, forse, il momento più bello è il lunedì, quando esco di nuovo per gli affari miei, senza l’assillo della corsa, percorrendo cento chilometri per sfidare il limite del mio fisico.
Hai raggiunto i tuoi maggiori successi sportivi negli Stati Uniti, perché un grande pilota come te è dovuto andare negli Stati Uniti per dimostrare il suo valore?
Io ho sempre la tendenza a vedere il bicchiere mezzo pieno e mai mezzo vuoto, per cui mi viene spontaneo dire che, per fortuna, ci sono riuscito là e non piuttosto a rammaricarmi per non esserci riuscito qua. Detto questo ne ho avuto l’opportunità, purtroppo siamo esseri umani e le ciambelle non sempre riescono col buco. Forse l’opportunità che ho avuto in questa parte dell’oceano non era così buona, ma è anche probabile, anzi è assolutamente certo, che io non abbia utilizzato quella opportunità, buona o cattiva che fosse, al meglio delle mie capacità, cosa che invece, per fortuna, sono riuscito a fare negli Stati Uniti. È indubbio che noi, in Italia, siamo molto esterofili: se una cosa la fa un nostro concittadino altrettanto bene non ci appare così esotica, così “figata” come se la facesse uno che si chiama Shumacher, piuttosto di uno che si chiami Kimi Raikkonen, tanto per citare due piloti che amo moltissimo.
Continuo a chiedermi perché la Ferrari non abbia puntato su di te.
Se la Ferrari fosse un ente statale, allora ci sarebbe qualche cosa da dire a questo riguardo, siccome la Ferrari è una società per azioni e deve rispondere ai propri azionisti, chi è preposto a prendere determinate decisioni ha evidentemente il dovere di agire nel modo che ritiene più opportuno. Secondo me sarebbe giusto che con i soldi delle tasse d’iscrizione, con quelle per le licenze dei piloti, la Federazione istituisse una scuola seria, volta a fare in modo che alcuni piloti italiani diventino, nel tempo, particolarmente interessanti non solo per la Ferrari, ma anche per la Mc Laren e per le altre squadre, questo è il succo del discorso. La Ferrari ha una struttura come potrebbe essere quella di tizio che si sveglia al mattino, apre il portafoglio, conta le banconote che ha dentro e vuole comprare la cosa più bella, che piace di più: come biasimarlo? Se poi non è quella cosa che piace a te, non puoi obbligarlo a dire questa è la mia scelta per cui spendili come dico io. Ci sono degli enti che dovrebbero essere pensati per questo tipo di ragionamento e che, invece, fanno un uso sciocco e discutibile delle loro risorse, sprecando risorse che potrebbero essere convogliate per produrre qualche cosa di positivo per i nostri colori. Mi ricollego alla poca importanza che si dà, nel nostro paese, all’attività sportiva. Lei mi dice: “È d’accordo che bisogna dare più importanza allo sport e ai suoi valori?”. Io le rispondo: “Assolutamente sì, sfonda una porta aperta. Perché non si faccia questo non lo so, è comunque evidente che chi è preposto a decidere su questi argomenti o ha altri interessi oppure la pensa diversamente, sbagliando. Dalle recenti statistiche risulta che siamo il paese con la tassazione pro-capite più alta e malgrado questo, guardi in che situazione siamo. Vuol dire che tutto il denaro che viene versato nelle casse dello stato non segue la destinazione migliore possibile”.
Non vorrei banalizzare, ma ritengo che i peggiori nemici degl’italiani siano gl’italiani stessi, sei d’accordo?
È molto triste affermare questo, ma la realtà è che noi siamo tutti bravi a parole, ragioniamo bene, ma poi ciascuno va per la propria strada. Al telegiornale delle otto e mezza dicono: “Tizio è andato addosso a uno, l’ha ucciso: era ubriaco!”. Basta che il tasso sia 0,51 per diventare notizia da TG di prima serata, quindi diventa automatico parlare di ubriachezza e così tutti a dire: “Ah, che delinquente!”, salvo restando che poi poi la sera dopo siamo fuori al ristorante, usciamo che facciamo fatica a stare dritti, dobbiamo fare tre chilometri, ma per noi è diverso. Siamo sempre molto bravi a darci delle scuse e a concederci delle deroghe.
Diciamo qualcosa a quei giovani che vorrebbero intraprendere la via dei motori. Quali consigli ti senti di dare a chi vorrebbe diventare pilota?
L’altro giorno mi ha scritto la mamma di un bambino, ovviamente è una signora separata dal marito che cresce suo figlio e sul quale evidentemente ripone non soltanto tante speranze, ma proprio tutte le sue attenzioni, per lei questo bambino è una ragione di vita, vorrebbe davvero il meglio per questo figlio e mi diceva: “Sai, mio figlio ha provato un go-kart, un signore che lo ha visto ha detto che il ragazzino mostra certamente una attitudine, non potresti fargli fare un test e magari fargli conoscere una persona?”. Io capisco benissimo la domanda, però si tratta di un atteggiamento che ha ben poco a che vedere con la razionalità, perché un bambino, a poco più di dieci anni, non è ancora in grado di mostrare chissà quale attitudine, tenendo presente poi che durante il suo cammino interverranno tanti fattori, ivi compresa anche la voglia di passare più tempo con gli amici, di vivere l’attività sportiva come un sacrificio e non più come una passione che, se viene inevitabilmente messa davanti a tutto quanto, tende inevitabilmente a schiacciare tutto il resto. Io sono nato in una famiglia dove il papà faceva l’idraulico e mia madre la casalinga. Sono certo che mio padre abbia fatto l’impossibile per farmi correre, per comprare sempre il materiale migliore e in certe occasioni, avrebbe voluto sicuramente fare di più, però mio padre ha fatto tantissimo, responsabilizzandomi in ogni momento del percorso, facendomi capire che me la dovevo sudare da solo, ponendomi di fronte a delle scelte precise. Finita una gara, lui andava al bar a bere un caffè con gli altri genitori e mi diceva: “Adesso pulisci tutti gli attrezzi, metti in ordine la tua roba”. Io rispondevo: “Perché non posso farlo domani?”. Lui di rimando: “Perché va fatto adesso”, poi se ne andava. In quel momento mi sembrava un atteggiamento da despota, oggi, che sono genitore a mia volta e mi rendo conto di quanto difficile sia mettere dei paletti di tanto in tanto ai propri figli, capisco benissimo quanto fosse difficile per lui tenere fede a un determinato atteggiamento che era molto studiato. Mio padre ha fatto tantissimo per me, ma è anche vero che lungo il cammino si è reso conto che stava investendo su un figlio al quale avrebbe voluto un bene dell’anima comunque, ma che stava rispondendo nel modo giusto. Quando mi vedeva con i miei amici, che mi venivano a cercare il sabato sera con i jeans puliti e le scarpine di vernice lucida per andare in discoteca, io stavo lì cinque minuti con loro e poi dicevo:” No, io non vengo perché devo lavorare sul mio go-kart e alle ventuno e trenta precise andavo a letto perché la mattina seguente dovevo essere vispo; lui ha visto in me uno che aveva voglia e grinta da vendere. Sono stato anche fortunato? Assolutamente sì. Sarei retorico se negassi il contrario. Ho avuto delle occasioni che a tanti miei coetanei, muniti di egual talento, sono state negate. D’altro canto il vento in poppa aiuta quando arriva, io ero là a prenderlo e sono partito. Ci sono tanti altri ragazzini che invece, secondo me, pretendono e pretendono, ma poi al lato pratico non si rendono conto che in certi momenti bisogna fare delle scelte. Il fatto poi di dover fare delle rinunce, non è necessariamente da vivere come un sacrificio se capisci che lo stai facendo per costruire qualcosa a cui tieni tantissimo. Questo è il trucco, riuscire a far capire che se si vuole davvero una cosa bisogna stilare una lista di priorità e ragionare in funzione di quelle. A quella mamma ho anche scritto: “Se un giorno suo figlio dovesse vincere otto titoli mondiali di Formula Uno e battere il record di Schumacher, mi tenga una fetta della torta che faranno per festeggiare, ma non è questo che lei deve preparare, perché questa è una cosa che si dovrà costruire lui lungo il cammino. A suo figlio deve insegnare che se vuole una cosa ci deve provare, non dire domani voglio fare il pilota di formula uno, ma cosa posso fare oggi. È necessario cominciare a muoversi verso un orizzonte che è visibile, che diventerà a sua volta il nuovo punto di partenza domani”. Per quanto in alto si possa arrivare, c’è sempre qualche cosina che si possa fare per migliorare ancora, in un modo che debba essere razionale, proporzionato alle capacità. Anche quando sei campione del mondo puoi sempre perfezionarti. Ecco io credo che questo sia quello che i genitori debbano spiegare ai loro figli.
Le famiglie, a mio avviso, devono capire che i ragazzi non vanno sempre protetti. Oggi assistiamo a un protezionismo enorme da parte delle famiglie e questo rende più difficile il lavoro degli educatori.
Una volta, quando ero ragazzino io, se facevo nove cose fatte bene e ne sbagliavo una mi arrivava un calcio nel sedere, oggi i bambini fanno nove boiate, però per quella fatta bene si aspettano il premio, a queste condizioni anche l’insegnante fa fatica a dialogare con dei bambini che hanno questo tipo di abitudine.
Parliamo dell’incidente, arriva all’improvviso e ti cambia la vita. Inizia un nuovo percorso. Che peso ha avuto ed ha ancora nella sua vita reale?
Io credo che ognuno di noi, sia la persona che nella propria vita sia felicissima e si accontenti di coltivar la terra, nascere in un luogo e muore nello stesso, avendo visitato soltanto il circondario dei terreni che ha coltivato, sia la persona che nella vita accumula una esagerazione di esperienze, sia comunque destinato a morire molto ignorante, perché non basta una vita per imparare tutto, ci si può soltanto arricchire. È indubbio che ciò che mi è accaduto mi ha insegnato tante cose che avrei continuato a ignorare se non avessi preso quella buca, però fondamentalmente sono poi la stessa persona. Se lei mi avesse chiesto oggi: “Cosa faresti se avessi un incidente a causa del quale…, come reagiresti?”. Se non mi fosse successo quello che mi è successo, la risposta sarebbe: “Mi toglierei la vita”. Perché?, perché avrei dato una risposta superficiale a una domanda ipotetica, ma lontanissima dalla mia immaginazione. Non avrei mai creduto di dovermici ritrovare, in realtà, invece, ho capito che poi dopo, nella vita, si affronta tutto e si trovano spesso le soluzioni per ripartire anche da momenti difficili, proprio perché poi saltano fuori energie nascoste e la voglia di vivere, che hanno sicuramente la meglio su tutto il resto. Io credo che chi più chi meno, tutti quanti, siamo capaci di reagire e di affrontare le difficoltà, di riprendere un po’ il toro per le corna. Nel mio percorso riabilitativo ho visto un sacco di persone che, magari, con meno titoli sui giornali del sottoscritto, hanno poi fatto le stesse identiche cose e cioè far funzionare le protesi o in che modo aiutarsi nella quotidianità, come è normale che sia, d’altronde ottenendo risposte. Noi, in fondo, abbiamo bisogno di qualcuno che faccia un po’ da sponda nella vita, qualcuno che ti voglia bene, che si fermi e si sieda con te, che rifletta e ti dica: “Guarda, io farei così…”, è molto importante. Ho comunque sempre pensato che, alla fine, quel 15 settembre del 2001 avevo combinato un bel casotto, da lì si trattava di stilare una lista di priorità e di concentrarsi di volta in volta sul problema in cima alla lista. Nella mia lista di priorità il problema numero uno era scendere da quel letto, togliermi quei da quei tubi che mi tenevano in vita, riconquistare l’indipendenza anche nei gesti più semplici, come andare in bagno e poi, da lì, trovare chi mi avrebbe aiutato nella mia riabilitazione, imparare a vivere sulle protesi nel modo migliore possibile, trasformandole in un ausilio che superasse tecnicamente la sedia a rotelle sulla quale, come lei vede, mi muovo tuttora. Nella mia quotidianità la sedia a rotelle è una cosa che, fortunatamente, serve a ben poco, perché con le protesi faccio molto di più. Ecco, messe a posto tutte queste cose, un bel giorno è arrivata l’idea di dire: “Voglio vedere se posso di nuovo ricollegare il cervello all’auto” e sapevo benissimo che qualora ci fossi riuscito, sarei tornato lo stesso pilota di sempre, capace di vincere delle corse contro i forti avversari che mi sono ritrovato a sfidare. Così è stato, ed è stata oggettivamente una bella soddisfazione.
Non credi che attorno al grande interesse che la gente ha nei confronti della tua persona, ci sia anche il desiderio di trovare delle risposte alle incertezze del nostro tempo?
Può essere. Sono convinto che la gente veda in generale me, molto di più di quanto non sia. Per questo alzo il cappello, ringrazio e continuo il mio cammino. La cosa non mi urta, anzi, mi fa molto piacere, però sono il primo ad ammettere che, in fondo, non ho fatto niente di speciale, ho fatto cose che, tra parentesi, ripeto, ho visto fare anche da altre persone e che, in quanto fatte, erano possibili. Non è che ne ho la convinzione oggi, dopo esserci riuscito, ne avevo la convinzione già prima.
Alex, se sei sempre uguale, da sotto a sopra il palco, come diceva un cantante che ho intervistato qualche tempo fa, sei una persona che comunica in modo fine, elegante e pulito, un comunicatore che fa capire molto bene quello in cui crede.
Io dico sempre le cose che penso e mi fa molto piacere che, avendo esternato sentimenti così naturali per me, tutto ciò mi abbia permesso di fare notizia. Tutto questo mi ha aiutato, ha migliorato la mia vita, posso soltanto affermare, a testimonianza di questo concetto per me così elementare e banale, che la mia più grande fortuna è stata quella di avere questo carattere, io sono fatto così, sono molto grato al destino per avermi formato in questo modo. Ho sempre avuto occhi per guardarmi attorno e quindi la capacità di tenere le cose nelle dovute proporzioni. Quanto mi è successo ha paradossalmente acuito ancora di più questa mia caratteristica, tanto è vero che mi è successo di trovare persone che mi hanno dato delle prove di coraggio, di tenacia, di passione per la vita, incalcolabili, di fronte alle quali quanto mi è accaduto è veramente ridicolo. Una volta ho visto un signore che aveva una bambina in braccio, al Centro di Riabilitazione di Budrio, la bambina era senza gambe; siccome al mattino avevamo bevuto un caffè assieme, mi ha detto: “Zanardi e allora la Ferrari…, una cosa, quell’altra”. Rivedo sto signore che piangeva alla pausa pranzo, con sta bambina in braccio, mi viene di dirgli qualcosa, lui mi precede e si affretta a dire: “No, no, ma io sto piangendo di gioia, vede, sono venuto stamattina a portare la mia bambina che finalmente ha compiuto tre anni, è arrivato il momento di farle le protesi, lei è nata così e quando i tecnici mi hanno detto, le scarpe… ho capito che era venuto il momento di tirarla in piedi; ho detto che non avevo mai comprato un paio di scarpe a mia figlia, così mi hanno detto di andarne a prenderne un paio. Sono uscito di corsa e stamattina ho comprato un paio di scarpe alla mia bambina, sono la persona più felice del mondo”. Mi sarei dato un cazzotto nello stomaco per cercare di trattenere le lacrime, poi dopo ti guardi allo specchio e dici: “Per fortuna io non mi sono mai lamentato per quello che mi è successo”. Veramente non esiste mai limite a ciò di cui siamo capaci, nel bene e nel male.
La vita sportiva e non è fatta di sconfitte e di vittorie, che significato dai a questi due momenti?
Bisogna innanzitutto specificare quale vittoria e quale sconfitta. La prima vittoria è sempre molto bella, formativa e procura quasi sempre una gioia immensa. Dentro pensiamo: “Caspita che bello, ci sono riuscito…, voglio fare ancora di più”. La prima sconfitta rischia, invece, di far mollare anzitempo chi, magari, non è così appassionato, chi è più pessimista o chi è meno motivato. La vittoria è molto piacevole, positiva, però la decima, ad esempio, può portarti a sottovalutare l’entità di ciò che stai tentando di fare, a diventare un po’ snob, peccare di superbia, può portarti a non capire più bene che, in fondo, ci sono persone che, pur uscendo sconfitte da quella giornata, hanno tratto un grosso insegnamento, mentre invece, se sei già arrivato all’ultima sconfitta, automaticamente vuol dire che non ti sei arreso, vuol dire che hai fiducia e credi che prima o poi, lavorando bene, troverai il modo di avere anche tu la tua giornata di gloria e quindi, paradossalmente, è molto più formativa di quanto non sia la decima vittoria. Entrambe le cose possono essere positive, sta a noi trarne il meglio e molto spesso non è facile, soprattutto quando si è molto giovani.
Come sei arrivato all’handbike?
Uno, per fattori tecnici quali il tipo di esercizio, il fatto che magari preferisci la bicicletta al nuoto, piuttosto che allo sci, al di là del fatto che, a me, queste attività sportive piacciono tutte. Ciò che mi affascina dell’handbike è che, senza nessun ausilio come possono essere la sedia a rotelle o le protesi, io salto su questo mezzo davanti a casa mia, esco a forza di braccia, faccio cento e più chilometri e riesco a ritornare in totale autonomia nel punto dal quale sono partito. La bicicletta mi piace tantissimo ed è una grandissima soddisfazione produrre un chilometro all’ora in più attraverso l’allenamento e saper trasformare il movimento da fatica in qualcosa per cui la fatica diventa un opzional, diventa qualcosa per cui viaggiare non è più faticoso. La fatica diventa una cosa che ti devi andare a cercare vincendo e questo per me è molto eccitante. Sono arrivato a volerla praticare a livello agonistico, perché mi sono reso conto uno, che ero, passatemi la battuta, “abbastanza tagliato per il tipo di esercizio” e due perché ho visto che c’era assolutamente “trippa per gatti”, perché gli avversari che mi sarei trovato ad affrontare sono dei campioni veri e quindi era molto stimolante misurarsi con loro, incassando un sacco di batoste, ma arrivandogli sempre più vicino, tanto che quest’anno ho ottenuto degli ottimi risultati, ho fatto medaglia d’argento al mondiale, quindi da bravo vecchietto sto lottando molto bene.
In che misura il tuo carattere emiliano ha contribuito a darti la forza di rimetterti in corsa?
Non so quanto i tortellini e le tagliatelle possano aver fatto la differenza, però voglio credere che l’essere emiliano, in qualche modo, abbia inciso sul mio carattere. Indubbiamente, venire da un luogo dove, soprattutto quando io ero bambino, la gente era molto aperta, molto disponibile, molto sorridente, sicuramente aiuta. Bologna era una città dove foravi una gomma e trovavi immediatamente uno che si fermava a chiederti se avevi bisogno di una mano, queste sono cose che nei grandi centri cittadini inevitabilmente si perdono, purtroppo la stessa cosa sta accadendo oggi alla città di Bologna. La gente diventa diffidente, tende poi a generalizzare, a vedere quello che vuole in ogni interlocutore che ha di fronte; forse questo, al pronti e via, ti dà un’apertura mentale migliore rispetto ad altre persone che vengono da altri luoghi. Poi, indubbiamente, contano il carattere di ognuno di noi e l’educazione che riceve rispetto al tipo di impronta territoriale.
Cambieresti il podio in Formula Uno, con la vittoria alla Maratona di New York?
Penso che la risposta la dia il fatto che siamo qui a parlare e non a Monza in Formula Uno, nel senso che io sono il primo ad ammettere che non mi ha mai fatto schifo firmare qualche autografo oppure essere riconosciuto o anche mettermi in tasca dei soldini che, altrimenti, non avrei avuto; però è arrivato il giorno in cui io ho preferito l’handbike a questo tipo di palcoscenico, che non era quello della Formula Uno ma che, decisamente, poteva essere decisamente meglio da un punto di vista mediatico rispetto a quello che mi sono scelto. Il podio in una di queste gare per me, al momento, è la cosa che conta di più. Non mi sono immunizzato alla passione per le auto da corsa, anzi, le dirò di più, siccome mia nonna tra qualche giorno compie 101 anni, io sono convinto di aver preso da lei, chiusa questa parentesi delle Paralimpiadi di Londra l’handbike non sparirà dalla mia vita, continuerà ad aver un ruolo fondamentale, anche per allenarmi, ma ci fosse una buona opportunità, probabilmente le auto tornerebbero in cima alla lista. È logico che la mia vita comprende interessi diversi, rispetto a quando avevo vent’anni, è logico che nella vita di un uomo di 44 ci debba essere una famiglia, ci debbano essere gli amici, le cose che hai già in qualche modo messo da parte, però ci deve essere anche un piccolo angolino nel tuo cuore che è tuo e soltanto tuo in cui le tue passioni abbiano un posto molto importante e non tolgo nulla se al mattino mi passa davanti l’immagine di qualcosa che sogno di fare e lo stesso pensiero mi passa davanti agli occhi la sera prima di addormentarmi, anzi credo di aggiungere tantissimo, perché è un atto di amore anche questo. La persona che guadagna in felicità, certamente saprà corrisponderne in misura maggiore alle persone alle quali vuole davvero bene nel momento stesso in cui è più sereno. Attenzione, io ho avuto la fortuna di poter raggiungere tutto questo, anche fama, celebrità, nonché gratificazioni economiche che non mi fanno mica schifo, però se avessi cercato solo quelle non ci sarei mai arrivato.
C’è qualcosa che ti sta particolarmente a cuore, che ti piacerebbe esternare al pubblico dei lettori?
Mi collego a quanto si stava dicendo intorno al sogno. Nella vita è bellissimo avere
dei sogni, ma è molto importante distinguerli dagli obiettivi. Gli obiettivi sono le cose che possiamo fare, quelle che sono alla nostra portata, per avvicinarsi al sogno, è altresì importante decidere qual è il nostro sogno, saper dove puntare la prua della barca, perché uno può andare a nord, a sud, a est, a ovest. Non dobbiamo criticare chi va a est, ognuno va dove vuole e il sogno, in fondo, è anche un ipotetico punto di arrivo usato dall’ immaginazione, ma che, una volta raggiunto, avrà, se hai la fortuna di realizzarlo, una veste diversa da come la tua immagine lo aveva partorito. Nel momento in cui ti muovi in una direzione devi saperti godere le tappe quotidiane, perché durante un lungo viaggio bisogna fermarsi in un porto e quindi: “Guardati attorno, vivi quello che stai facendo”: è questa la cosa importante. Io sognavo di arrivare a Londra, di disputare i Giochi Paralimpici e sognavo perché facevo la maratona di Sant’Antonio a Padova, dove arrivavo undicesimo e quindi in quel momento raccontare alla gente, anche se mi avrebbero creduto, che Zanardi avrebbe potuto farlo, non è assolutamente così, perché nell’handbike mi sono trovato a sfidare dei veri campioni. La cosa più eccitante è stato appunto, una volta puntata la prua della mia barca in quella direzione, godersi il percorso, vivere gli allenamenti, lavorare per costruire delle cose che ogni giorno per mia grande fortuna e anche per il lavoro che ho fatto sono cambiate, mi hanno permesso di fare sempre di più e oggi questo sogno non è più tale, è un obiettivo concreto, perché praticamente sono qualificato per i Giochi di Londra e quindi paradossalmente comincio già a pensare cosa farò dopo. Mi permetto di sostenere che sono concentratissimo su ciò che sto facendo, ma sono anche consapevole che nel momento in cui dovessi riuscire a tornare a casa da Londra con una medaglia, si concluderebbe questa parentesi della mia vita. La medaglia mi ricorderà tutte le cose belle che ho fatto per arrivare, ma mi devo inventare qualcosa d’altro, perché l’orologio fa tic- tac, perché non si può vivere di soli ricordi. La metterò lì tra i trofei, in un angolo della mia casa, e quando giocherò a biliardo con i miei amici la guarderò con orgoglio. Per dire qualche cosa un po’ più ad effetto, se quella medaglia mi ricordasse che, per vincerla, mi sono riempito di epo o di altre schifezze, probabilmente non la metterei in bella vista, farei di tutto per nasconderla. Io sono uno che ha sempre cercato di vivere e interpretare lo sport nei suoi valori più alti, perché è solo in questo modo che possiamo diventare degli esempi credibili per tutti coloro che ci guardano, tifano e ripongono nelle nostre gesta le loro speranze.
L’intervista è pubblicata sul libro di Felice Magnani e Rossella Magnani, INCONTRI DI SPORT
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