Le piogge flagellanti dei giorni scorsi hanno bagnato di malinconia fresca la rugosa caserma di piazza Repubblica. I muri scrostati sino a perdere pezzi di sé stessi, gl’infissi crepati e da rottamare. Poi il resto che vi sta attorno, imprigionando da tempo immemorabile l’edificio: i ponteggi in assi di legno e tubi di ferro, barriere emergenziali e protettive messe lì allo scopo d’evitare che uno scroscio d’acqua o una folata di vento rovescino pericoli su passanti e automobilisti. Questi ponteggi, già orribili di loro, sono corrosi dalla ruggine, decomposti dall’umidità, offesi dall’inquinamento.
Chi per la prima volta facesse visita a Varese, e dall’autostrada vi s’inoltrasse lungo la principale arteria di scorrimento che sbocca in piazza Repubblica, resterebbe basito di fronte a un simile spettacolo di noncuranza, sciatteria, degrado. E si chiederebbe perché mai una così bella città voglia fare così del male a sé stessa, abdicando al rispetto delle regole elementari della dignità estetica. Che possiede un valore superiore alla mera bellezza d’immagine: racchiude il profondo sentimento urbano, l’amore degli abitanti per la cosa pubblica e la dedizione della cosa pubblica per gli abitanti.
Perché Varese si presenta in abiti dimessi, sgualciti e addirittura stracciati, al forestiero (non solo al forestiero) pronto ad ammirarne le riconosciute qualità d’ambiente, d’architettura, di storia? Perché, come sapete, un giorno al posto della vecchia caserma – abbattuta o restaurata – nascerà un edificio di moderna funzionalità, destinato a ospitare il teatro e altri servizi culturali, in modo da costituire un polo d’attrazione importante (augurabilmente il più importante) per tutti coloro che a Varese vivono o a Varese desiderano trascorrere qualche ora d’ottima vivibilità. L’attesa del gran giorno è però un’attesa che data ormai da numerosi anni, e che richiederà una pazienza, se non infinita, di sicuro giobbesca, com’è d’uso quando le decisioni sono d’ordine politico.
Nelle more dell’aspettativa d’un evento che passerà tra i “memorabilia” bosini, sembrerebbe dunque opportuno rimediare, almeno in termini momentanei e visivi, allo sconcio che colpisce l’occhio dei frequentatori casuali o abituali di piazza Repubblica. Un’idea – l’unica possibile, a meno che la fantasia municipale non ne scovi d’apprezzabilmente diverse – sembrerebbe quella di ricoprire i muri, gl’infissi, i ponteggi e tutto l’insieme del rudere monumentale con maxipannelli artisticamente illustrati.
Non si tratterebbe d’uno sgarbo né al passato né alla contemporaneità, e anzi d’una gratificazione della vista pubblica che i privati – come insegnano le spettacolari esperienze di altre città – sono disposti a pagare bene. Cogliere un obiettivo di generale interesse facendosi remunerare da uno sponsor non viola la sacralità del bene collettivo, semmai la tutela. E produce cultura di transizione (la pubblicità qualitativa rappresenta una forma di cultura) nell’attesa che si produca una cultura definitiva. Perché negare ai varesini (e ai non varesini) una ragione di rallegramento in tempi in cui purtroppo manca qualunque altro motivo per rallegrarsi?
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