Ratzinger cancellato da Bergoglio, demolita la linea del papato di Benedetto XVI, un errore che limita la libertà della Chiesa e provoca nuove fratture: esplode la polemica sui media dopo il no di Francesco alla messa in latino autorizzata nel 2007 dal pontefice tedesco. Riappaiono i cantori del conflitto totale “fra i due papi”, tornano a circolare le voci secondo cui Benedetto non abdicò nel 2013 ma si dimise senza rinunciare al “ministerium” e dunque il vero papa sarebbe ancora lui. Per non parlare delle trame da film giallo di chi indica in un famigerato gruppo di San Gallo, dall’abbazia in cui si riuniva, chi ha ordito la caduta di Ratzinger.
Casus belli, il motu proprio Traditionis Custodes con cui Francesco ha delimitato la libertà di celebrare la messa in latino nelle chiese parrocchiali concessa a suo tempo da Benedetto XVI. Motivo del provvedimento “l’uso distorto che ne è stato fatto”. In una lettera ai vescovi, Bergoglio spiega che il predecessore aveva dato la possibilità di dire messa con il rito antico di Pio V, “rilanciato” da Giovanni XXIII nel 1962, per ricomporre lo scisma con il movimento tradizionalista di monsignor Lefebvre. Ma quella libertà, malintesa, è stata adoperata per rifiutare la riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II e per affermare che la Chiesa è stata tradita.
L’apertura di Benedetto XVI, lamenta il papa, “è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze e costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa esponendola al rischio di divisioni”. E aggiunge: “Per quattro secoli il Missale Romanum promulgato da san Pio V ha svolto la funzione di unificare la Chiesa. Non per contraddire la dignità e grandezza di quel rito i vescovi riuniti in concilio ecumenico hanno chiesto che fosse riformato; il loro intento era che i fedeli non assistessero come estranei o muti spettatori al mistero di fede (nda, messa in latino e spalle ai fedeli), ma con la comprensione piena dei riti e delle preghiere partecipassero all’azione sacra consapevolmente”.
L’opera di adattamento del messale romano – riassume Francesco – era già stata iniziata da Pio XII e Paolo VI dichiarò che la revisione, condotta alla luce delle più antiche fonti liturgiche, aveva come scopo di permettere alla Chiesa di elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera che esprimesse la sua unità. “Questa unità intendo sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano – conclude il papa – per questo dispongo che i libri liturgici promulgati dai santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. E che norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti sono abrogate”.
Sicuramente è un giro di vite, non la cancellazione tout court della messa in latino, ma solo di chi la usa con intenti trasgressivi. Il papa affida ai vescovi la responsabilità di autorizzare nelle diocesi l’uso del messale preconciliare secondo gli orientamenti della sede apostolica, di verificare che i gruppi che scelgono il rito antico rispettino la validità e la legittimità della riforma liturgica dettata dal Concilio Vaticano II e che anche in queste celebrazioni le letture siano fatte nelle lingue correnti nazionali. “Spetta soprattutto ai vescovi – raccomanda – operare perché si torni a una forma celebrativa unitaria, verificando caso per caso la realtà dei gruppi che celebrano con il rito antico”.
No agli abusi di ogni tipo, insomma. Né da parte di chi fa un uso strumentale del messale rinascimentale per accentuare le contrapposizioni, né di chi interpreta in modo troppo creativo la liturgia conciliare (magari cantando i brani dei Ricchi e Poveri). La scusa è comunque buona, come si diceva, per rilanciare la solita narrazione del contrasto tra il papa regnante e quello emerito, tra Francesco e Benedetto con le loro scelte e le loro decisioni, ma anche tra i due uomini Joseph e Jorge con le differenti visioni della vita, le convinzioni, gli ideali. Ogni pretesto è valido per trascinare dentro alle polemiche, senza troppi riguardi, demonizzandoli addirittura, entrambi gli uomini in bianco.
Nella prefazione al libro di Luca Caruso di recente pubblicazione, Benedetto XVI. La vita e le sfide, edito dalla Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, l’arcivescovo Georg Gänswein, segretario particolare del papa emerito e prefetto della casa pontificia, afferma che “ogni volta che si tenta di inquadrare Benedetto XVI sorgono divisioni e liti” e che, su di lui, “pregiudizi, falsità e persino disinformazione dominano ogni discussione”. “È considerato – aggiunge – uno dei pensatori più intelligenti dei nostri tempi e una figura affascinante, ma anche un personaggio scomodo per i suoi avversari, che non mancano”.
È l’ennesima conferma, dall’interno, del malessere di una Chiesa combattuta tra differenti modi di intenderne la funzione, esitante fra l’osservanza della tradizione e la spinta all’innovazione, incerta fra la dottrina dei padri e il pragmatismo dettato dalle necessità, travagliata fra il bisogno di spiritualità e l’urgenza dell’apostolato di strada. Ma da qui a raccontarla come un campo di battaglia ce ne corre, a presentarla come lo scontro di due eserciti con tutto l’armamentario della guerra psicologica, le verità di comodo, le interpretazioni divergenti. Lo stesso Gänswein ne ha fatte le spese, licenziato da Francesco, si disse, poi la Santa Sede smentì.
Meglio tornare alla semplicità, ferma e trasparente, delle parole del papa: “Al pari di Benedetto XVI, anch’io stigmatizzo che in molti luoghi non si celebri in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura venga inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale porta spesso a deformazioni al limite del sopportabile. Ma non di meno mi rattrista un uso strumentale del Missale Romanum, sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente della riforma liturgica e del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la vera Chiesa”.
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