È l’anno ’98, scrivo un libro sulla Juve, colgo l’attimo da folie e provo a chiederne la prefazione a Gianluca Vialli. Lui ignora ch’io sia, cioè uno zero rispetto a firme d’alta cifra. Ma quando riesco a contattarlo, bastano pochi minuti di telefonata perché si persuada all’okay.
C’incontriamo qualche mese dopo a Torino, per la presentazione. Una stretta di mano, qualche facezia e il mio goffo imbarazzo viene rimosso. Scopro una persona dall’umanità rara. Arguto, umile, generoso.
Poi ci perdiamo di vista. Lo riaggancio nel 2018, quando so della malattia che l’ha preso. Alla debolezza emotiva delle parole che gl’invio, replica la forza del suo temperamento. Ecco la conferma dell’umanità rara. Non si compiange, e invece conforta.
Ci messaggiamo durante gli europei. Scommette fin da subito sull’impresa e mi faccio l’idea che convincerà chiunque, nella nazionale, a vestire il suo spirito positivo: una seta lieve e protettiva. Va proprio così. Di giorno in giorno, di partita in partita, di successo in successo. Sino all’epilogo.
Degli azzurri, Luca è capo delegazione nella forma. Nella sostanza fa il sodale di Mancini, l’amico dei giocatori, il general manager del gruppo. Non solo l’ambasciatore istituzionale. Reca in dote sapere tecnico, acume psicologico, arte della comunicazione. Mixa serietà e allegrezza, sa toccare le corde giuste che musicano armonia. Prima della finale con l’Inghilterra legge alla squadra un brano di Theodore Roosevelt. Il succo è: bisogna far di tutto per vincere, non scordando che bisognerà accettare di perder tutto, qualora capitasse.
Il calcio si conferma metafora della vita. Di cui Vialli sta giocando il match-clou. Avversario, il cancro. Posta in palio contendibile: lo sfidato ci tiene sempre a dichiararlo. È un incoraggiamento a sé stesso, e una speranza agli altri. Si chiama professione di fiducia, se interpretata dal punto di vista laico. Atto di fede, se scrutata con l’occhio cattolico. Azione da gol, se osservata dalla gradinata dell’arena sportiva. Plaudendovi, pur se soliti a tali eventi, ci s’accorge che non si è mai all’ultimo stadio. Sempre al primo, e carichi d’entusiasmo: i nostri ce la faranno. Noi ce la faremo.
La notte dell’11 luglio gli scrivo: grazie dell’immensa gioia che ci avete regalato. Evviva. Anzi, viva. Anzi W. Come Wembley, Winners, Winston, Wialli. Risponde con tre cuori, verde bianco e rosso, a fianco della coppa d’Europa. Poi un rigo di felice emozione, e d’obbligata riservatezza. Ci sarà un’altra volta? C’è sempre un’altra volta. E va cercata quando pare non esserci più. Come nei triboli della pandemia: la battiamo -dai, che la battiamo- se alla competenza scientifica, al prodigarsi dei governanti, al civismo popolare si somma la volontà secondo Luca. Allora sì che verrà il tempo della vittoria. Del CoWin.
Ps Al rientro da Londra, Vialli è andato in pellegrinaggio al santuario della Beata Vergine della Speranza di Grumello Cremonese. Un gesto ustorio: quelli compiuti quando l’anima brucia di gratitudine.
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