Non è facile essere giovani in Italia. Nel nostro Paese i giovani iniziano a lavorare con forte ritardo rispetto ai coetanei di altri Paesi: in media, l’età del primo impiego è 22 anni, contro i 16,7 anni dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi. L’ingresso nel mercato del lavoro avviene spesso con percorsi scarsamente qualificanti, privi di prospettive di inserimento e con caratteristiche di forte precarietà.
È così che il tasso di disoccupazione dei 15/24enni è del 29%, con punte vicine al 40% nelle regioni meridionali. E il 24% dei giovani italiani tra i 14 e i 29 anni non sono ufficialmente né studenti, né occupati, né coinvolti in percorsi di istruzione e formazione.
Il rapporto tra scuola e lavoro è molto complesso e solo il 5% degli studenti che escono dalle scuole superiori ha avuto in qualche modo contatti formativi con un’azienda. Una percentuale che in Germania supera il 30%. I percorsi della scuola secondaria e dell’Università appaiono in molti casi più tesi all’erudizione che alla formazione, alla conoscenza più che alla ricerca: i percorsi scolastici appaiono incapaci di sviluppare le competenze che possano corrispondere alle reali esigenze delle imprese.
Qualcosa si sta muovendo, ma con grandi difficoltà. La grande riforma del mercato del lavoro, in discussione in queste settimane in Parlamento, appare certamente importante per smuovere le acque in questa delicatissima materia, ma ancora con una visione legata più al formalismo garantista che alla possibilità di creare nuove opportunità.
L’inserimento dei giovani ne è un esempio. Il percorso in teoria è molto chiaro: la via maestra è quella dell’apprendistato per portare il giovane verso il contratto di lavoro a tempo indeterminato. In pratica per arrivare al risultato non sono pochi gli ostacoli da superare. Alcuni sono stati già rimossi con l’entrata in vigore silenziosamente pochi giorni fa, il 26 aprile, del nuovo testo unico dell’apprendistato dopo il periodo transitorio che avrebbe dovuto consentire alle Regioni di varare i provvedimenti di loro competenza. Con la nuova legge per l’apprendistato professionalizzante vengono per esempio abolite le commissioni provinciali e cessa l’obbligo di richiedere il parere di conformità alle province. Ma resta un difficile intreccio non solo tra le leggi nazionali e quelle regionali, ma anche con i contratti collettivi di primo e secondo livello.
Il nuovo apprendistato richiede che i contratti collettivi precisino i profili professionali specifici del settore di riferimento con la durata e le modalità della formazione per l’acquisizione delle competenze specialistiche, in relazione alla qualificazione contrattuale da conseguire. Un processo che richiede grande competenza e attenzione da parte di chi deve pianificare queste procedure.
Un modello che per essere realmente costruttivo dovrebbe avere la capacità di adattarsi con tempestività alle nuove dinamiche dell’industria e dei servizi. Mentre il fatto che la formazione (40 ore all’anno) venga svolta prevalentemente al di fuori dell’impresa non garantisce certo una sicura preparazione al lavoro richiesto.
L’apprendistato potrebbe realmente dare alle imprese la possibilità di creare nuovi posti di lavoro, ma si trova ancora una volta legato a schemi e procedure che possono facilmente comprometterne l’efficacia.
Il rischio è che anche si perda la caratteristica che dovrebbe avere, quella di un inserimento graduale e formativo nell’impresa. Per diventare invece un’altra forma di precariato, utilizzato per avere un risparmio contributivo e retributivo e per garantire una forte flessibilità.
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