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Sport

ELEGANZA E STILE

FELICE MAGNANI - 16/07/2021

ito-gianiNel mondo sportivo nazionale e internazionale ha portato un tocco di stile e di eleganza. Ha partecipato a due Olimpiadi, Tokjo 1964 e Città del Messico 1968. Ha conquistato il bronzo nei 100, nei 200 e la medaglia d’oro nella staffetta 4X100 alle Universiadi di Tokjo del ‘67 e poi le medaglie d’oro a Tunisi nei Giochi del Mediterraneo, ma avrebbe potuto fare ancora molto di più se un drammatico incidente stradale non lo avesse fermato. Gli appassionati lo ricordano non solo per le sue virtù sportive, ma soprattutto per la sua amabile varesinità e per quel suo essere dispensatore di amicizia e di speranza in un mondo spesso chiuso nelle sue ambiguità. Dal romanzo di Lorenzo Iervolino:

TRENTACINQUE SECONDI ANCORA

TOMMIE SMITH E JOHN CARLOS: IL SACRIFICIO E LA GLORIA

emerge a chiare lettere la grandissima onestà sportiva di Ito, la sua vera e profonda stima che lo legava a Peter Norton, il rivale con il quale condivideva gli allenamenti, in quello spirito di fair play che rende omaggio alla straordinaria bellezza dello sport. E’ grazie alla moglie Anna, che mi ha inviato l’anteprima di Iervolino che parla di suo marito, se oggi sono in grado di proporvelo nella sua autenticità.

ANTEPRIMA DEL ROMANZO

Who’s that white guy?
15 ottobre 1968

«Norman, non badare a me».
Peter cammina davanti ai blocchi della corsia 7, inspira col naso, soffia via l’aria con la bocca. La curva da lì appare molto larga e quindi, pensa, la dovrà tagliare in maniera decisa. Torna a controllare i blocchi, la distanza tra le placche, fa qualche saltello e solo a quel punto sente di nuovo la voce.

«Norman, ora che partiamo non mi guardare, ok?»
Si tratta dell’italiano Ippolito Giani, detto Ito, col quale Peter Norman si è allenato nei giorni precedenti. Peter sa che Giani è in forma, conosce i suoi tempi sui 100 e sui 150, ma non sa che gli hanno iniettato un’intera dose di novocaina nel bicipite femorale della coscia destra.
«Uscendo dai blocchi non mi guardare, ché mi sono stirato. Mi fermo subito, mi ritiro dopo lo start. Quindi, non tenermi gli occhi addosso, ok?» dice l’italiano, e Peter pensa che una strategia per distrarre l’avversario come quella non l’aveva mai sentita e che ora gli sarà impossibile non guardarlo. Indietreggia sui blocchi, prova la posizione dei piedi, questa cosa di Giani lo sta facendo innervosire, lui che sa come gestire le gare dal punto di vista psicologico.
«Dico davvero» riattacca l’italiano, fermo in ottava corsia. «Non mi sono ritirato prima solo perché così, un giorno, potrò dire ai miei nipoti di aver partecipato a due Olimpiadi e non a una soltanto».
Peter non ha più tempo per dargli retta, scuote la testa, sente il battito cardiaco aumentare, sa che il momento è quasi arrivato. È la sesta batteria del primo turno dei 200: si qualificano i primi quattro più i ripescaggi tra i migliori esclusi, quindi con un tempo attorno ai 21’’ netti dovrebbe farcela. Nonostante sia un tempo ampiamente alla sua portata, in quel momento la voce interiore gli dice una cosa soltanto: non puoi arrivare ultimo, scordatelo, vai a mille e non arrivare ultimo.
Il fischio singolo invita gli atleti a posizionarsi. Per non creare incomprensioni tra i corridori, a Messico ’68 i comandi vocali erano stati sostituiti da quei suoni: uno per ai vostri posti, due per pronti.
Peter schiaccia il piede sinistro sulla placca con la punta della scarpa staccata dalla pista, sarà quello il piede di spinta. Sotto i polpastrelli sente la superficie morbida del tartan. Il segnale con il doppio fischio ha il potere di annullare ogni altro rumore e visione che lo circonda, a eccezione del rosso della pista, che invade la sua visuale ora che ha gli occhi puntati verso il basso. Conta i tre secondi che precedono il successivo segnale. Mille-e-uno, mille-e-due, conta così, mille-e-uno, mille-e-due, ma tutto è infinitamente più lento. L’udito diventa un organo interno che collabora a equilibrare ogni cosa. Sul mille-e-due inspira col naso. I miei nipoti, pensa per un attimo. Che figlio di… Mille-e-tre. Bang!
L’adrenalina schizza dalle ghiandole surrenali, coronarie e polmoni si dilatano irradiando i muscoli striati di sangue e ossigeno, mentre quelli lisci si rilassano. Il sistema nervoso centrale è invaso dall’eccitazione, la pupilla si espande e ogni percezione è profondamente emotiva: il cervello ha elaborato il segnale di paura della preda, o l’ansia di prevalere del predatore. In entrambi i casi il corpo è predisposto alla perfezione per una sola azione: correre. Fight or fly, combatti o fuggi: è l’automatismo ancestrale che s’impadronisce dell’animale-uomo prima e durante la corsa, lo stesso che accomuna gli atleti olimpici agli studenti messicani che in piazza delle Tre culture, il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi, corrono per sfuggire ai proiettili che piovono da tutte le direzioni: da quattro postazioni nei palazzi circostanti, dagli elicotteri e dagli agenti in piazza. Una corsa, questa, che non ha nulla del controllo e della preparazione fisica dell’atleta, con frequenze cardiache che sfondano i 140 di massima e il corpo che agisce in maniera quasi autonoma.
Quella del 2 ottobre era stata una delle tante manifestazioni che avevano bloccato il paese nell’ultimo anno, in seguito alla richiesta di rinnovamento politico e istituzionale partita dalle facoltà universitarie. Il presidente Gustavo Díaz Ordaz aveva fatto sapere all’ambasciata degli Stati Uniti che era tutto sotto controllo, che il sistema di sicurezza in vista degli imminenti Giochi olimpici sarebbe stato impeccabile. Ma, dal Dipartimento di difesa americano, la pensavano in maniera diversa. In un report informativo del 24 settembre [numero identificativo cancellato], veniva esplicitamente detto che «l’occupazione dell’università statale Unam da parte dell’esercito messicano era stato un gravissimo errore strategico, che l’impiego di diecimila militari era spropositato, che questo atto avrebbe creato forza e aggregazione a livello nazionale rispetto al movimento studentesco». Il capo dell’FBI, John Edgar Hoover in persona, firmava una nota indirizzata al presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson in cui avvertiva che «la situazione rappresentava un serio rischio per la tranquillità necessaria al normale svolgimento dei Giochi olimpici» [Bureau file 62-112471]. Il governo messicano non era più ritenuto «in grado di gestire la sicurezza del paese» [CIA IN 87410]. Bisognava agire, e la manifestazione di piazza delle Tre culture, in zona Tlatelolco, sembrava perfetta per esercitare il piano: la partecipazione era stimata attorno ai cinquemila manifestanti, quindi piuttosto contenuta; l’informativa proveniente dagli agenti infiltrati dava per certa la presenza di studenti del servizio d’ordine provvisti di armi, adatti a rivestire i panni di capro espiatorio per la stampa estera; e poi quei guanti bianchi da far indossare agli agenti messicani in borghese al momento dell’attacco, come segno di riconoscimento. Aumento della frequenza cardiaca, bronco dilatazione, flight or fly, combatti o fuggi. Fuggi o muori. Oppure muori e basta.
Bang! Allo sparo Peter esce forte, con la gamba destra in avanti. I primi appoggi sono molto laterali, a cercare una maggiore spinta. Alza subito la testa sprecando un po’ dell’accelerazione iniziale, ma l’uscita dai blocchi non è il suo punto di forza. Bilancia questi difetti con un’ottima compattezza di corsa, con l’alta frequenza del passo e una stabilità del bacino praticamente perfetta. Corre molto vicino alla linea interna della corsia, entra in curva tagliandola più che può. Con l’occhio sinistro vede tre sagome, con il destro nessuna. All’intersezione delle linee, sui cento metri, Torres gli sembra già più lento, mentre resistono il campione europeo Bambuck e il britannico Steane che risale dall’interno. Ma Peter sa di non aver ancora aperto l’accelerazione, lo aspettano altri ottanta metri di rettilineo, i suoi preferiti, perciò aumenta la frequenza e la spinta muscolare pur riuscendo a rimanere compatto e ben allineato. Mentre Bambuck e Steane si perdono da qualche parte dietro la sua visuale, Peter taglia il traguardo in 20’’23, quaranta decimi sotto il suo miglior tempo. È il nuovo record australiano. Il nuovo record olimpico. Peter Norman è andato più veloce del 20’’37 fatto registrare un’ora prima da Tommie Smith nella seconda batteria. No, non è arrivato ultimo.
«La cosa più importante in quella gara, per me,» avrebbe commentato molto tempo dopo «fu che il corridore italiano che era in ottava corsia mi avvertì di essere infortunato. All’inizio non gli avevo creduto, ma subito dopo lo start si fermò, fece giusto due passetti e si ritirò. Io ero in settima e avevo solo lui davanti che potevo guardare. Se non mi avesse detto nulla, avrei pensato a una falsa partenza, mi sarei fermato anch’io ed ecco fatto, sarei finito fuori con lui e fine della storia».
Invece Peter accede ai quarti di finale stravolgendo tutte le previsioni dei commentatori, della stampa di settore, e perfino degli scommettitori.

 

RICORDO DI UN AMICO

Felice: un grande amico! E’ con questa espressione che Ito Giani ha siglato per iscritto la sua amicizia nei miei confronti nelle pagine dell’ORO IN BOCCA a lui dedicate. Un’amicizia sottile, quasi impalpabile, vincolata a sentimenti profondi, uniti da una comune passione per lo sport, ma soprattutto da quel rispetto che definisce indissolubilmente un’alleanza di emozioni nate dal cuore. La conoscenza di Ito nasce nel mese di maggio del 1989, quando l’indimenticabile monsignor Tarcisio Pigionatti accolse l’idea, mia e di mia moglie, di creare una bellissima serata a Cittiglio, su “I GIOVANI E LO SPORT”. Monsignore capì al volo il significato di una serata che avrebbe dovuto creare un momento di riflessione piacevole sulla bellezza dello sport, raccontato in prima persona ai giovani di Cittiglio da quegli atleti varesini che l’avevano fatto amare in Italia e nel mondo. La primissima uscita di Monsignore fu: “Telefoniamo al dottor Ito Giani, partiamo da lui”. Così è stato e poi via via quel calendario si è arricchito di tutto il gotha varesino, con personaggi come Enrico Ravasi, Domenico Zagonia, Bruno Franceschetti, Dino Meneghin, Gian Piero Marini, Attilio Ducrocchi, Angelo Rizzi, Marco Kogoj, Pietro Anastasi , Massimo Ferraiuolo, Juri Chechi e Boris Preti, Emilio Riganti, Andrea Peron, Fabrizio Ambrosetti, Daniela Sabatini, Roberta Guidi, Stefano Forzani, Massimiliano Papis, Tiziano Nava, Claudio Gentile. E’ nella sala consiliare del comune di Cittiglio che ho ascoltato l’intervento di Ito, quel velocista straordinario che nel 1967, mentre seguivo alla tv le sue incredibili imprese nel lontanissimo Giappone, diventava il re delle Universiadi di Tokjo, vincendo due medaglie di bronzo, nei 100 e nei 200 e la medaglia d’oro nella staffetta 4X100. Una serata splendida quella dei “GIOVANI E LO SPORT”, ripresa da Televerbano, una serata dove una marea di ragazzini, seduti a terra a gambe incrociate, si mangiava con gli occhi quegli atleti noti per le loro imprese teletrasmesse dai canali nazionali. Un incontro che è diventato condivisione, quando ho chiesto a Ito di entrare nelle pagine di un libro sullo sport che avevo appena iniziato. Ci siamo visti più volte a casa mia. Abbiamo parlato, abbiamo condiviso, ho ascoltato con tutta la gioia possibile quel meraviglioso campione che aveva battuto il grandissimo Berruti nei Campionati italiani di Bologna, sui 200. Era cordialissimo, umile, emozionato. Non c’era nelle sue parole la verve accesa di chi sapeva di essere stato uno degli atleti più forti al mondo nelle sue specialità, c’era semplicemente la gioia di poter toccare con mano che qualcuno si ricordasse di lui e delle sue imprese raccontandole, anche se brevemente, nelle pagine di un libro. In quegli incontri a casa mia ho parlato spesso con Ito e con Anna la sua adoratissima moglie, gentile e con lo sguardo costantemente rivolto al suo Ito, alle sue parole, alla gioia che provava nel ricordare momenti indimenticabili. Dopo la pubblicazione, con Ito e altri atleti abbiamo fatto vivere l’ORO IN BOCCA nelle scuole della provincia. Ogni volta che lo chiamavo rispondeva presente e con lui vicino mi sentivo tranquillo, sapevo che quel suo modo gioviale stracarico di ricordi e quella sua sincerità evocativa avrebbero fatto breccia nel cuore dei giovani, suscitando una marea di domande. Era felice di parlare delle sue imprese, glielo si leggeva negli occhi.  Sono stati momenti bellissimi, scanditi dal racconto di un grande campione che sapeva farsi piccolo per lasciare lo spazio necessario alla curiosità, alla voglia di sapere e di apprendere, alla forza persuasiva di uno sport come il suo, naturalmente legato alla Biumense, a Varese, alla sua terra, quella terra varesina che era gelosamente custodita in fondo alla sua anima sportiva. Ci siamo visti in occasione delle operazioni alle gambe, quando l’euforia del racconto si soffermava sull’esito drammatico di un intervento e quando con dovizia di particolari faceva vedere a me e a mia figlia Rossella i problemi delle sue gambe “torturate” dal bisturi. Momenti difficili, ma pieni di umanità, dove l’atleta conviveva con la dura realtà, non dimenticando mai che un campione è campione sempre, soprattutto quando il destino lo chiama alla lotta contro le avversità. Non posso non dimenticare l’ultimissima breve intervista che mi ha rilasciato per telefono, mentre stava combattendo la sua battaglia contro la malattia. Disponibile come sempre, poche parole ma estremamente significative le sue, capaci di far capire tutto, con la misurata e compassata umiltà di un grandissimo campione, pronto ad affrontare con la giusta concentrazione uno dei momenti più difficili della propria vita.

 

Intervista

Ito, si avvicinano le Olimpiadi di Rio, come vivi questo avvenimento?

Non essendo purtroppo protagonista in campo, vivo questo avvenimento in maniera distaccata e nostalgica, da osservatore curioso di vedere cosa ci regaleranno gli atleti italiani.

Quali i ricordi più significativi di Tokyo 64 e Città del Messico 68?

Ricordo Tokyo come un’ entusiasmante presa di conoscenza di un mondo nuovo, di una cultura diversa da quella italiana e occidentale. Dal punto di vista sportivo è stata la presa di coscienza di far parte della migliore gioventù mondiale di quel periodo storico.

Come vedi l’atletica di oggi?

Auguro di cuore ai protagonisti dell’Atletica italiana di essere all’altezza della situazione.

E’ possibile avere ancora velocisti come Giani, Berruti, Mennea?

Bisogna trovare individui che alle indispensabili doti naturali sappiano unire straordinarie doti morali. Io mi considero un velocista che a doti naturali ha unito una forte volontà di “arrivare”. Berruti era un’eccezione dal punto di vista della facilità di corsa, un mix di scioltezza e potenza relativa, unita a una coordinazione naturale, eccezionale. Mennea è stato un esempio di volontà unita a una feroce dedizione e a un’ eroica capacità di soffrire nella preparazione.

Come vivi questi anni?

Attualmente sto combattendo una personale battaglia  contro una malattia. Sono ottimista circa l’esito.

Che cosa ti manca di più?

Come a tutti quelli che non l’hanno più, anche a me manca la gioventù, ma non ne faccio un problema: mi adeguo.

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