Honoré de Balzac li chiamava “nientologi” e, scriveva, “se non esistessero, non bisognerebbe inventarli”. Ma la caustica penna dello scrittore francese ce l’aveva soprattutto con i vanitosi tromboni che popolavano le redazioni dei giornali usando la stampa per scalare la società. Non sopportava il giornalismo arrampicatore e corrotto diffuso ai suoi tempi (come ai nostri): “La critica – sibilava – serve soltanto a una cosa, a far vivere la critica”. Tuttavia il caffeinomane autore della Commedia umana, inseguito dai debiti, riconosceva che il giornalismo di opposizione che colpisce gli abusi di potere è “un’opera rara e di talento”.
Se perfino un inflessibile fustigatore della società come Balzac ammette i meriti del giornalismo investigativo, vale la pena riflettere su ciò che accade in Italia alla testata Report, sotto attacco per le sue inchieste. Una sentenza del Tar del Lazio ha ordinato alla trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci di rivelare le fonti e i documenti alla base di un servizio giornalistico andato in onda nel 2020 suscitando le proteste del sindacato. La Federazione nazionale della stampa ha dato mandato a un pool di avvocati di presentare ricorso contro la sentenza, affiancandosi al ricorso che la Rai farà in Consiglio di Stato.
Il pronunciamento del Tar equipara il lavoro dei giornalisti della tv di Stato a quello dei funzionari pubblici e mette in discussione la tutela delle fonti confidenziali che è l’essenza stessa della professione. È un precedente pericoloso perché discrimina tra il giornalismo nel servizio pubblico e il resto della categoria: “Chi si rivolgerà più a un cronista per denunciare qualcosa – si chiede polemicamente Ranucci – se teme che le sue mail o i suoi documenti siano resi pubblici? Non rispetterò questa sentenza. Osserverò invece la legge che m’impone di tutelare le fonti perché la garanzia dell’anonimato è la base della libertà di stampa”.
Non è solo Report a far trasparire il pesante clima che grava in Italia sull’informazione. Alla questione delle querele bavaglio ferma da anni in Parlamento e alle ricorrenti minacce ai giornalisti che indagano nel mondo del crimine, si aggiunge l’urgenza di rilanciare l’intero settore con un confronto a tutto campo con il governo e il Parlamento. Da tempo il sindacato dei giornalisti chiede di eliminare il fenomeno dei collaboratori sottopagati, di definire l’equo compenso per i lavoratori autonomi, di regolarizzare i contratti, di diradare i pensionamenti anticipati, di abolire il carcere per i cronisti e agevolare la trasformazione digitale nei giornali.
La Federazione nazionale della stampa (Fnsi) e la Commissione lavoro autonomo (Clan) hanno lanciato un sondaggio sulle condizioni di lavoro per contrastare la “narrazione” degli editori secondo cui il precariato non esiste. Si chiama Precariometro e si rivolge ai giornalisti di carta stampata, radio, tv, fotografi, videomaker, uffici stampa, web e social. “Migliaia di cronisti precari lavorano in condizioni non diverse da quelle dei rider – afferma Raffaele Lorusso, segretario generale Fnsi – è necessaria una presa di coscienza da parte del governo e della politica perché a tutti siano riconosciuti diritti e tutele contrattuali”.
Particolarmente delicata appare la situazione dell’Inpgi, l’ente di previdenza dei giornalisti con i conti in rosso da parecchio tempo e a rischio default nel giro di pochi anni. Un emendamento al decreto legge Sostegni, approvato dalla commissione bilancio della Camera, ha fatto slittare dal 30 giugno al 31 dicembre 2021 il termine per evitare il commissariamento dell’istituto e ha costituito una equipe tecnica composta da rappresentanti del ministero del Lavoro, del dipartimento per l’editoria della Presidenza del Consiglio, del ministero dell’Economia, dell’Inps e dell’Inpgi per approfondire la ricerca di soluzioni.
È un punto di partenza, ma non basta. L’editoria è afflitta da una grave crisi strutturale, incapace di reagire al rapido consolidarsi dell’informazione gratuita online, non professionale e alimentata dai social, che ha provocato l’emorragia di vendite e di investimenti pubblicitari nei giornali cartacei, ostacolando le assunzioni e diradando i versamenti dei contributi all’Inpgi. La categoria è spaccata sui possibili rimedi. C’è chi pensa che dovrebbe confluire nel “carrozzone” pubblico dell’Inps, chi invece vorrebbe mantenere l’autonomia allargando la platea dei contributori a quanti, senza essere giornalisti professionisti, ruotano intorno all’informazione.
Nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare di controllo sull’attività degli enti previdenziali, il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha detto che l’ente di Stato sarebbe in grado di assorbire la Cassa dei giornalisti e che “c’è una interlocuzione in corso”. Immediata la reazione del sindacato che le ha definite “dichiarazioni di inaudita gravità e un’ingerenza nell’attività dell’Inpgi”. Secondo la Fnsi è giusto che i comunicatori delle pubbliche amministrazioni, gli autori tv, i produttori di contenuti e i blogger si attengano alle regole deontologiche stabilite per la professione giornalistica ed è naturale che aderiscano all’Inpgi.
Consentire l’allargamento della platea, previsto da una legge dello Stato a partire dal 2023, non è una “migrazione” di contribuenti e sarebbe un’alternativa adeguata. Dalle proiezioni fatte elaborare dall’ente emerge che l’unica soluzione strutturale in grado di ripristinare l’equilibrio economico finanziario dell’Inpgi è costituita proprio dall’ingresso di nuovi contribuenti. Una via d’uscita che non prevede alcun onere diretto a carico dello Stato, diversamente da quanto ipotizzato dal presidente Tridico, che per poter assorbire l’Inpgi ha già formalizzato l’esigenza di ulteriori stanziamenti economici a carico delle finanze pubbliche.
La stabilità dei conti dell’istituto di previdenza non può prescindere in ogni caso dal rilancio dell’intera filiera dell’informazione. Serve un patto per salvare il settore, una riforma profonda dell’editoria per tutelare il sistema del welfare dei giornalisti italiani e rafforzarlo economicamente. “Per questa ragione – ribadisce Lorusso – è necessario che il presidente del Consiglio Mario Draghi riprenda la proposta di legge dell’editoria 5.0 e avvii al più presto un tavolo politico a Palazzo Chigi per affrontare le criticità legate alla transizione al digitale, all’indebolimento e allo sfruttamento del lavoro dei giornalisti e all’uso degli ammortizzatori sociali”.
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