A scegliere per lei il nome d’arte, quando s’era affacciata al mondo del cinema, era stato il regista Dante Guardamagna.
Che accanto a quello di Raffaella, imposto alla nascita, aveva pensato di aggiungere il cognome di un altro artista e rinomato pittore, il Maestro del realismo magico Carlo Carrà.
E certo non aveva sbagliato: che altro sarebbe stato, se non realismo magico, quell’atmosfera delle serate Rai degli anni Settanta materializzatasi attorno a Corrado Mantoni e alla nostrana soubrette?
Voce pastosa e sensuale, e pronuncia dalle o aperte, rotonde come quell’ombelico offerto al pubblico di Canzonissima con una strizzata d’occhi, era capace di far sognare e volare insieme milioni di italiani, dall’autunno fino al 6 di gennaio. Quando il biglietto della lotteria Italia, pronto in mano nel finale da cardiopalma, restava lì, incollato tra le dita: cifra di un sogno ormai finito in quell’ultima ora di vacanza natalizia strappata al sonno. L’indomani l’Italia della befana televisiva si sarebbe, diligente e operosa, rimessa al lavoro.
Il cognome era Pelloni, come quello del passator cortese, “re della strada e re della foresta “ ricordato da Pascoli in “Romagna” e registrato nella Treccani. Dove la Raffa nazionale entrò di diritto, con il termine carrambata derivatole da una tra le sue più seguite trasmissioni, “Carramba! che sorpresa”, densa di improvvisate e abbracci. Conditi dalle lacrime di molti emigrati, divisi dalla lontananza e ritrovatisi dopo una vita.
Nessuno agli esordi avrebbe presagito il successo straordinario e la notorietà immensa di quella giovanissima soubrette, destinata a diventare negli anni immagine Rai: nelle vesti di instancabile ballerina e cantante, ma soprattutto intrattenitrice, nonché autrice, dei suoi stessi programmi.
Nel tempo dorato della vecchiaia, deposti i panni da palcoscenico, si era presa la soddisfazione di incontrare, in “A raccontarti comincia tu” personaggi come Sophia Loren e Riccardo Muti.
Il maestro aveva sciolto per l’occasione il piglio accigliato. E spalancato le porte della sua meravigliosa ‘casa-museo’, testimonianza di successi e ricordi di una vita, offrendo un’immagine molto diversa da quella che la gente comune s’era fatta di lui. Ben attenta a non sopravvalutarsi, lei aveva tenuto a precisare: non è un’intervista giornalistica la mia, come non lo sono gli altri appuntamenti proposti, “chiamateli semplicemente incontri”. Perché questo le interessava: avvicinare gli altri, attraverso quella empatia -emiliana, o romagnola che fosse, la disputa è ancora aperta tra Bologna e Bellaria- che le consentiva di entrare nelle case degli italiani.
A muoverla, aveva dichiarato in un’intervista rilasciata in apertura a quel suo ultimo ciclo di ottimo lavoro, era la curiosità. La magica chiave che, assieme alle porte delle case, apre all’intelligenza, in un felice magma senza il quale non esiste cultura. Una parola, quest’ultima, che forse mai si sarebbe permessa di usare, per non innervosire i saccentoni le cui elucubrazioni volavano, e sempre volano alte, nelle accademie, ma anche nelle stanze della televisione come nelle pagine dei giornali.
Eppure aveva offerto agli italiani momenti di svago e buona informazione, di commozione ed emozione, due aspetti questi di una stessa alchimia. Che si chiama sentimento.
L’impressione è che Raffaella sia stata per l’intera sua vita sempre accanto agli italiani, pronta a conoscerli, aiutarli, comprenderli ed emozionarli. In realtà ha parecchio viaggiato e lavorato anche all’estero, imparato nuove lingue e incontrato altre culture, come quella latinoamericana. Il calore lo aveva portato con sé, oltre i confini del Bel Paese. Perseguendo, più che la notorietà, che peraltro ha confermato l’empatia universale del personaggio, la curiosità. Assieme a quell’altra dote da lei richiamata: la leggerezza.
Una dote importante: che conta molto, quando si fa cultura e spettacolo, e che spesso manca. E che- teneva a spiegare “non significa affatto superficialità”.
Lo aveva capito presto Antonello Falqui affiancandola a Mina e insieme le due star avevano cantato, danzato e fatto sognare un intero Paese. Era Il volto di una Rai che negli anni del miracolo economico offriva a sua volta la magia di una cultura intelligente e lieve, non gridata, capace di divertire, e raffinata la sua parte. Perché sostenuta da registi e autori di gran talento, quali Lelio Luttazzi o Marcello Marchesi, per citarne un paio.
In una parola: unificante. Come lo era stata la scuola televisiva del bravo maestro Alberto Manzi.
Ecco perché anche il doveroso grazie dei potenti è apparso agli italiani, dopo quell’uscita garbata e silenziosa di lei- lo scorso 5 luglio, a 78 anni- un saluto sincero e commosso.
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