Chi è il mental coach, un formatore capace di aprire la mente a una visione più chiara dell’identità? Un educatore dotato dell’abilissima capacità di capire gli altri e di orientarne positivamente i talenti, le risorse e gli obiettivi? Un comunicatore che sa entrare nel cuore delle persone, educandole a un sistema di vita più adeguato? È certamente un professionista che ha lavorato molto su se stesso prima di diventare insegnante, entrando in punta di piedi nel suggestivo mondo della comunicazione life e sportiva, imparando giorno per giorno che la verità non è mai quella istituzionalmente legata a giudizi sommari, a convinzioni occasionali o a stereotipi culturali.
È frequentando percorsi formativi autorizzati che Dimitri Giudici, il mental coach nato e cresciuto a pane e sport in quel di Cittiglio, dotato di una naturalissima vocazione calcistica, ha approfondito e affinato la sua passione per l’investigazione umana, finalizzata al benessere della persona. In un mondo dove spesso superficialità, pregiudizio, cattiva pubblicità, sottovalutazione e scarsa professionalità la fanno da padroni e dove diventano sempre più frequenti fenomeni correlati al vuoto esistenziale, alla carenza motivazionale e al disorientamento, si sente sempre di più la necessità di affidarsi a figure che hanno le carte in regola per sostenere e riattivare chi cade sotto i colpi di un consumismo e di un materialismo che annullano passione, entusiasmo, coraggio e autostima. L’attività del mental coach non ha ambiti preferenziali, si rivolge a tutte quelle persone che vogliono superare momenti difficili. Le difficoltà spaziano dalle aziende, al mondo del business, a quello dello sport, dove un agonismo esasperato finisce spesso per dimenticarsi di mantenere alto il livello motivazionale assunto, lavorando pochissimo sull’identità della persona e sulle sue relazioni umane. In una società dove l’essere è sempre più spersonalizzato, vittima di un’esasperante rincorsa al progresso, riesce sempre più difficile essere all’altezza senza perdere di vista gli obiettivi, avendo ben chiaro in mente il punto di partenza e il punto di arrivo.
È in questa direzione che Dimitri Giudici, il DIMO di Cittiglio, lavora con tenacia e perseveranza, puntando su una metodologia che privilegia il carattere umano della comunicazione, quello che parte dal cuore e arriva direttamente all’anima, passando attraverso il gioco, il divertimento e la consapevolezza che il mondo delle responsabilità è reale e merita di essere coltivato, consolidato e potenziato. Con il carattere fortemente umano della sua comunicazione professionale, accompagnata spesso dal sorriso e da una umanissima e molto interessante predisposizione affettiva, il mental coach cittigliese, che ha calpestato in gioventù il terreno dello stadio San Siro, oggi Giuseppe Meazza, di Milano, con la gloriosa maglia dell’Inter, punta decisamente a rafforzare un capitale umano spesso sottovalutato, partendo da lontano, ma con l’efficacia educativa di chi sa e di che cosa abbia bisogno la persona per tornare a essere protagonista attiva della propria storia e di quella della comunità nella quale esercita il suo spirito civile. L’impegno di DIMO spazia in ogni ordine e ambito della condizione umana. Cuore e sorriso sono gl’ingredienti fondamentali per ridisegnare storie, per riconsegnare un valore identitario a mondi spesso contraffatti, che hanno bisogno di ritrovarsi.
Dimitri, ci sono molte cose di cui lo sport ha bisogno, sei d’accordo?
Non c’è nulla che non possa essere migliorato, neppure lo sport sfugge a questa legge. Migliorare significa avere consapevolezza di quali siano gli errori o le cose negative che abbiamo intenzione di scaricare dal nostro zainetto, per renderlo più leggero e più pronto a raccogliere le sfide del tempo. Lo sport, il calcio in particolare, è stato e continua a essere la chiave di lettura della mia vita passata e di quella presente, oggi lo è con modalità diverse, ma rimane pur sempre il mio banco di prova. È una disciplina che richiede sacrificio, abnegazione, l’ho sperimentato sulla mia pelle. Giocare nell’Inter è stato un privilegio, ma tutti i sabati e le domeniche dovevo prendere il treno e andare a Milano per giocare, mentre i miei amici potevano godersi in santa pace il fine settimana. Ogni passaggio che fai è formativo, aggiunge esperienza ad altra esperienza, lo fai senza porti troppi problemi, con quella spensieratezza che ti aiuta a vivere con entusiasmo il tuo presente. Sono cresciuto a pane e sport, ho amato il calcio, il basket, il tennis, ho calpestato i tappeti erbosi degli stadi e quelli un po’ sterrati degli oratori, dei campi di periferia. Ho sentito ardere dentro la passione, qualcosa di indecifrabile che ti entusiasma e ti avvolge, che ti fa capire quanto sia bello correre, dribblare, ragionare, segnare, quanto sia bello respirare a pieni polmoni l’agonismo dei campetti che profumano di umanità e di umiltà. Sono stato un atleta scanzonato, pronto sempre a buttarsi a capofitto in qualsiasi attività che respirasse l’umore avvolgente della passione. Così ho fatto per parecchi anni, associando l’interesse per il calcio e per lo sport in generale, a lavori più di tipo tradizionale, quelli che ti costringono a una vita normale, a volte fin troppo ripetitiva. L’ho coltivato, sono cresciuto e sto ancora crescendo insieme a lui e grazie a lui, verificando e valutando ogni volta quello che mi dà e quello che io gli riesco a dare. Lavoro con grande professionalità, guardando sempre avanti e non dando mai niente per scontato, con la certezza che le soluzioni vadano trovate nella collaborazione e con il buon senso. Faccio questo per iniettare il gusto di una identità ricca e piena, trasferendo negli altri, soprattutto in quei giovani con i quali vengo a contatto, la bellezza di essere coerenti, di saper vivere con gioia e con dedizione quella carica di allegria e di benessere che la vita sportiva porta dentro di sé, se la si impara a conoscere e ad apprezzare. Ho sempre avuto accanto l’umore passionale dei campi di calcio, ma col passare del tempo sentivo che avevo bisogno di mettere a fuoco quello che sarebbe dovuto diventare il mio lavoro, allenare, guidare, accompagnare, condividere in pienezza la vita degli atleti e quella delle persone, aiutandoli a risolvere le loro crisi, i loro problemi fisici e morali, che spesso diventano l’anticamera delle frustrazioni e della conseguente perdita di motivazione. Lo sport ha bisogno di avere accanto chi lo sappia far vivere, chi lo sappia accogliere e far apprezzare, chi sappia insegnarlo alle giovani generazioni con l’accortezza di non dimenticare mai che la cultura e l’educazione svolgono un ruolo fondamentale nella crescita delle generazioni future, in qualsiasi campo.
Come vivi la tua vocazione sportiva?
Con amore e con passione, ma anche con la giusta dose di razionalità. C’è una cosa che mi viene abbastanza facile e che perseguo con impegno e professionalità, trovare persone che lavorino in team, con quella lucidità che diventa un formidabile esempio di unione e di democratica compattezza. È un po’ quello che sto facendo a Ispra, dove sono responsabile di centocinquanta bambini e di quindici allenatori. Oggi non vado più in campo, ma il mio team ci va sistematicamente e sa esattamente quello che deve fare. Il percorso che ho dovuto affrontare per essere quello che sono, è arrivato quasi per caso. Si è trattato di un incontro del tutto casuale con la vita, anche se sono convinto che la vocazione ce l’hai dentro da sempre e a volte basta poco, anche solo il consiglio di un conoscente, per farla saltar fuori e convincerti che quella è la strada giusta. Restituire la motivazione a un atleta che l’ha perduta è fondamentale, è soprattutto importante imparare che è partendo dagli errori che si risale la china, è così nello sport, ma è così anche nella vita sociale e lavorativa delle persone comuni. Il Mental Coach è consultato da una svariatissima categoria di persone che, per un motivo o per l’altro, si trova a dover affrontare crisi d’identità. Chi sono? Cosa devo fare?Quale strada devo percorrere per riprendere a vivere senza problemi? Qual è il segreto del vivere bene? Come posso dare un senso alle cose che faccio? Sono domande che s’incontrano di frequente e che attendono una risposta, quella che sblocca situazioni apparentemente irrisolvibili. Oggi si sono persi di vista molti valori sui quali diventa necessario riflettere, è sempre più importante avere il coraggio di fermarsi, respirando profondamente, fare un esame di coscienza, accompagnati da chi è professionalmente preparato a trasformare le negatività in positività, le frustrazioni in nuove opportunità da vivere. Il Mental Coach opera sulla sfera individuale, ma anche su quella delle relazioni sociali e dei rapporti interpersonali, sollecitando una ripresa e una convinzione nei confronti di quegli obiettivi che, strada facendo, hanno ceduto il passo a varie forme di demotivazione. Seguendo la mia strada professionale ho capito, ad esempio che, quando si prende un impegno, bisogna essere coerenti fino in fondo. Non amo le defezioni, in particolare quelle dell’ultimo momento,quelle che mettono in crisi chi ha il compito di gestire e guidare, nella vita la coerenza è un valore. Cerco di insegnare la coerenza e come fare per riacchiapparla quando vorrebbe perdersi per strada.
Come deve essere l’approccio sportivo?
Quello che faccio nello sport è quello che faccio nella vita. Con i genitori dei miei ragazzi ho un rapporto estremamente aperto e diretto. Spesso dico loro: “Avete mai visto un ragazzo che vuole perdere?”. La risposta è scontata, la verità è che tutti vogliono vincere, ma occorre precisare che la parte fondamentale dell’approccio sportivo è quello di giocare e di divertirsi giocando, cercando di superare quello scoglio in cui t’imbatti di solito tra i dieci e i quattordici anni e che è rappresentato dall’abbandono. A essere sinceri l’abbandono può anche essere in parte naturale, però noi non dobbiamo esserne la causa. Per questo non dobbiamo sovraccaricare di pressioni chi ci sta di fronte, chi cerca di fare il proprio dovere, dobbiamo affrontare il problema e soprattutto farlo insieme, con le domande giuste. “Ti sei divertito? Stai bene?”, è partendo da questi piccoli punti interrogativi che si può ripristinare o iniziare un nuovo rapporto.
E con le famiglie?
Nella società consumistica si sono persi di vista i ruoli e le responsabilità. In molti casi la tendenza è quella di prevaricare, magari inconsciamente, si tende a sostituirsi agli altri, non capendo che ognuno, nella vita, ha un ruolo e una responsabilità da gestire. Quando i genitori vengono a vedere le nostre partite, possono solo incitare, ma non dare suggerimenti tecnici perché, per questo, ci sono persone competenti e qualificate. Ai ragazzini le cose vanno spiegate con molta pazienza: “Vogliamo arrivare lì e per farlo abbiamo bisogno del vostro aiuto”. È facendo leva sul senso di responsabilità, partendo dalle difficoltà e dagli errori che il Coach mette in atto la sua mediazione. È quando hai il genitore al tuo fianco e non contro, che il team funziona e questo atteggiamento ha riflessi molto positivi sulla crescita dei ragazzi, di cui tutti siamo responsabili. Ci sono situazioni in cui mi capita di dover dire a qualche genitore o ragazzino insistente: “Se vuoi vincere le partite, perché questo è il tuo unico obiettivo, vai da un’altra parte”. Nel nostro paese c’è poca cultura sportiva. Spesso devo ricordare ai genitori che la partita è dei bambini e non degli adulti. Ci sono genitori che, avendo giocato a calcio nella loro giovinezza, pretendono di sostituirsi all’allenatore, prevaricando i ruoli. Si tratta di comportamenti sbagliati che creano disorientamento, perdita di autorevolezza, confusione. A me la Nazionale piace un sacco, ma non capisco perché tutte le volte che il portiere rinvia debba urlare m…a? È un comportamento sbagliato, che è partito da alcuni stadi italiani. Noi allenatori portiamo spesso i nostri ragazzi allo stadio a vedere le partite di serie B, ci invitano, ci fanno giocare una partitella in anteprima, ci offrono il pranzo. Quando il martedì chiedo ai ragazzi quale è stata la cosa più bella, sa cosa mi rispondono? “Quando il portiere della squadra avversaria rinvia, urlando m……a!”. Di una straordinaria giornata vissuta allo stadio che cosa è rimasto nella mente dei ragazzi? Una parolaccia. Credo che la FIGC dovrebbe fare un appello per evitare che si creino queste situazioni fortemente diseducative. Nello sport e nel lavoro che faccio metto la mia parte di educazione, ma pretendo che anche gli altri mettano la loro. Molti dei problemi del mondo sportivo, in particolare del calcio, riguardano i comportamenti. Per rimediare bisogna partire da un modo diverso di vivere la gioiosa euforia dello sport, sollecitando quella parte dell’apprendimento che punta dritto al cuore e alle sue benefiche emozioni.
Come sei diventato mental coach?
Non ho mai creduto che le cose potessero capitare per caso. C’è stato un momento in cui ho cominciato a pormi delle domande. Nella mia vita sportiva ho allenato prime squadre, ho avuto spesso a che fare con venti, venticinque giocatori, con allenatori, portieri e con tutto il personale che gravita nel nostro mondo. Spesso e volentieri ho dovuto cogliere al volo le occasioni, ingegnandomi a farlo nel miglior modo possibile, stringendo i tempi, usando poche parole, ma capaci di scuotere l’attenzione, dovevo far arrivare il mio pensiero in fretta, puntando dritto agli obiettivi. Succedeva spesso che una parte di pubblico capisse tutto, un’altra solo una parte e un’altra ancora assolutamente niente. Mi sono posto subito un interrogativo: “Sono loro che non capiscono o sono io che non riesco a farmi capire?”. Il primo impulso è stato: “Cosa posso fare?”. Allerto un contatto per frequentare un corso di comunicazione efficace: mi si apre un mondo. La prima cosa che ho fatto è stata quella di svuotare lo zaino. Ho tirato fuori tutte quelle cose che mi stavano pesando e ho fatto il passo successivo. Ho dato subito le dimissioni dalla squadra che stavo allenando, erano mesi infatti che andavo controvoglia. Ogni volta che riempivo la borsa per andare al campo vivevo una frustrazione, solo i bambini riuscivano a farmi sorridere, sentivo però che quel mondo ormai non mi apparteneva più. Mi sono detto che non potevo più stare con dei bambini ed essere sospeso in un mare di negatività, perché il rischio sarebbe stato quello di trasmettere a loro quella stessa negatività.
E allora cos’hai fatto?
Mi sono preso una pausa, ho cambiato ambiente e ho accettato una nuova proposta. Ho iniziato con la comunicazione rivolta a me stesso, la parte in assoluto più difficile, quella che costringe a metterti di fronte allo specchio per capire chi sei e cosa vuoi, quali siano i tuoi obiettivi, che cosa è più giusto fare. Ho imparato moltissimo dai corsi che ho frequentato, mantenendo intatta solo quella parte che avevo costruito in autonomia nel passato. Mi sono appassionato, ho frequentato un master in comunicazione, ho partecipato a un corso sul Coaching (affiancamento e guida)nello sport e subito dopo ho iniziato seriamente a pensare che avrei potuto fare il Mental Coach. Spesso dico ai miei clienti: “Provate a entrare nel bar ed essere voi i primi a sorridere, a dire grazie, mentre dall’altra parte vi preparano il caffè, non aspettate che siano sempre gli altri a dovervi sorridere e a essere gentili con voi”. Se siamo noi i primi a mettere energia positiva in ciò che diciamo e in ciò che facciamo, diventiamo immediatamente contagiosi. Una delle tante cose belle che insegna il Coaching è saper osservare da fuori, imparare a rapportarsi con le persone, creando relazioni ampie e soddisfacenti. Sono diventato Mental Coach perché ho capito gli errori che ho commesso in passato e perché sentivo fortemente dentro di me la voglia di essere diverso e di poter fare tutto quello che avevo in mente per il bene dello sport e delle persone in generale.
Può lo sport diventare il collante di una società?
Non dobbiamo dimenticare che solo grossissimi avvenimenti sportivi hanno interrotto il Festival di Sanremo, ricordiamo infatti la vittoria di Alberto Tomba. Uno dei pochi momenti in cui il paese è unito è quando la Nazionale di calcio gioca i Campionati europei o i Mondiali. Nel paese di mia moglie, Ornavasso, piccola realtà di tremila abitanti, qualche genitore, avendo a disposizione una palestra molto ben attrezzata e organizzata, ha costruito una squadra di pallavolo che è arrivata a giocare in serie A/1. Questo fatto sportivo è stato al centro di un grande interesse popolare e mediatico. Negli anni in cui la società sportiva è stata al top, il sabato sera il paese intero occupava il palazzetto, circa ottocento persone si muovevano per testimoniare il loro tifo sportivo. Nella squadra e nel team c’erano anche persone del paese e questo rendeva ancora più forte l’attenzione e la curiosità della gente. Avere la propria squadra nella serie B della pallavolo creava entusiasmo, passione, solidarietà e condivisione. Lo sport ha la grande capacità di essere trainante, di unire, di coinvolgere e di aggregare, ma per fare questo bisogna prima farlo conoscere e farlo amare. Bisogna soprattutto insegnarlo. Non basta dare un pallone a dei ragazzini e abbandonarli in mezzo a un campo, non basta mettere a disposizione un terreno di gioco per sentirsi a posto con la coscienza, la vita di relazione va insegnata, va coltivata, seguita e guidata. Guidare un gruppo non è una cosa semplice, richiede pazienza, accortezza, amabilità, ma anche una giusta dose di fermezza. Purtroppo in molti casi è difficile farsi ascoltare, entrare nel cuore della gente, modificare in meglio le proprie abitudini, adottare comportamenti, imparare ad essere un pochino diversi.
Cos’è il rinforzo positivo?
Nel coaching c’è il rinforzo positivo, facciamo fare degli esercizi e li correggiamo. Non usiamo però il metodo scolastico, quello che abbiamo conosciuto sui banchi della scuola, quello della penna rossa per focalizzare l’errore, sottolineiamo prima di tutto le cose fatte bene e se poi ci rendiamo conto che c’è qualcosa che non va, scriviamo accanto: “Come potevi farlo meglio?”. Non colpevolizziamo, non puniamo, incoraggiamo a trovare soluzioni diverse. Quando un bambino sbaglia, se ha cercato di correggere l’errore e non c’è riuscito, adottiamo come metodo inclusivo il silenzio. Se ha fatto bene scattano parole incoraggianti, in modo tale che il risultato dell’associazione mentale sia: “Questo è giusto”. Se non dico niente, il ragazzo capisce da solo che ha sbagliato, ma se aggiungo un’emozione negativa all’errore creo ansia. Noi dobbiamo combattere l’ansia, dobbiamo far crescere una gioventù che si sappia guardare dentro con onestà, che risolva i propri problemi senza scaricarli con violenza nelle vie o nelle piazze. Lo sport serve anche a questo, a sviluppare un allenamento mentale proficuo, che sappia dare le giuste risposte al momento opportuno. Non colpevolizziamo, non puniamo, ma incoraggiamo a trovare soluzioni diverse, alternative, con senso di responsabilità. L’apprendimento con il rinforzo positivo dà risultati migliori, fa sì che le persone crescano nella fiducia, aumentando il proprio livello di autostima. Vedere dei giovani con la testa bassa che hanno paura di esporsi è una sconfitta, vederli angosciati con la paura addosso è terribile. Nel mondo della scuola, ad esempio, siamo stati abituati ad associare la figura del professore alla materia. Nella maggior parte dei casi non è la materia in sé che non piace, ma quella mancanza di empatia che si è creata con il professore. Saper entrare nell’animo umano è una dote straordinaria, perché favorisce il passaggio della comunicazione e lo sport dovrebbe avere proprio questa peculiarità, di produrre benessere fisico e soprattutto mentale.
Come valuti le situazioni?
Caso per caso. In coaching, come anche nello sport, è necessario spronare, ma il tutto va fatto con estrema cautela, motivando il senso di una parola e tenendo in debito conto il tipo di caratterialità con cui veniamo in contatto. Non esiste un rapporto univoco, standardizzato, molto dipende dal tipo di domanda e di risposta che la situazione richiede. Spesso si etichettano i ragazzi nel modo peggiore: “Sei uno stupido, sei un fannullone”, in realtà si tende a ridurre tutto a un aspetto o a un momento della giornata o della vita di un ragazzo, è importante invece andare all’origine dei problemi, chiedendosi il perché di un determinato comportamento. Lo sport dovrebbe avere la funzione di toccare l’anima gioiosa dei ragazzi, risvegliando in loro la capacità di vivere con serenità la dimensione sportiva, trasformando l’energia negativa in energia positiva, in autostima, in consapevolezza e capacità di gestire l’errore commesso. Il rimprovero va contro la persona, non contro l’azione. Spesso ci si lascia condurre dall’impeto, da un impulso istintuale, quando invece sarebbe molto più costruttivo valutare razionalmente il tipo di comportamento evidenziato, sottoponendolo ad analisi e a valutazione.
Dunque nella vita si cambia moltissimo?
Nella vita si cambia moltissimo, le posso confermare che quindici anni fa non ero la persona che sono adesso, usavo parole diverse, non ero un esempio. Ho sempre cercato di fare del mio meglio e il segreto sta nel farlo, con ciò di cui si dispone. Un tempo avevo una valigetta più povera di nozioni, di esperienze, adesso che sono un po’ più adulto mi sento più libero, più sicuro, sono un allenatore e una persona diversa, più capace di comprendere i problemi degli altri. Sono certo però che fra dieci anni riguarderò questo tempo e sicuramente penserò che avrei potuto fare meglio. C’è sempre un tempo per migliorare. L’importante è dare quello che si ha, ciò di cui si dispone al momento. Quanti educatori fanno corsi di comunicazione? Il mondo che abbiamo di fronte e con il quale dobbiamo fare i conti tutte la mattine quando ci alziamo non è mai lo stesso, cambia continuamente e con le regole del passato difficilmente oggi si otterrebbero risultati soddisfacenti. La creazione di una forte identità di gruppo è fondamentale nello sport, come anche nella vita comunitaria. Spesso durante le pause, quando i ragazzi si cambiano per fare ritorno a casa, il team s’incontra e discute sulle problematiche in corso, magari sorseggiando una birretta che custodiamo nel piccolo frigorifero della dispensa. È un momento importante dove il problema di uno diventa il problema di tutti. Le situazioni si valutano insieme, riunendo la capacità critica di tutti i componenti del team.
Dimitri, il punto è creare la giusta empatia?
La parola va sempre ponderata, è la chiave che ci permette di stabilire una relazione, di affrontare un problema, di socializzare, di fare in modo che la sua forza apra le porte di un rinnovamento interiore. Se riesci a creare una giusta empatia, il gruppo fa più di quello che gli viene richiesto, questo vale per la vita sportiva, ma anche per quella di tutti i giorni, quella che dobbiamo affrontare quotidianamente con le sue piccole o grandi frustrazioni. L’esempio conta moltissimo, ma per adottarlo bisogna averlo conosciuto e apprezzato, bisogna essersi allenati a comportamenti adeguati. Se l’atleta di una squadra di calcio o il dipendente di un’azienda si sentono valorizzati, sono portati a fare di più, a dare tutto quello che hanno e questo, nell’economia di un gruppo o di una squadra, è assolutamente fondamentale. La valorizzazione della persona è la chiave di volta per superare la frustrazione, che altrimenti porta inevitabilmente all’emarginazione, alla depressione e alla demotivazione. Bisogna avere il coraggio di cambiare, di togliere la zavorra che portiamo dentro, riempiendo il nostro zainetto di nuove motivazioni. Una domanda che mi pongo spesso è: “Quanti si sentono davvero integrati in una squadra, in un paese o in una città?”. Quante persone conoscono i meccanismi che governano queste realtà, quante persone sanno veramente motivare un’azione, una parola, una frase, quanti sanno dare un senso vero e profondo alle cose che fanno e quanti ne conoscono gli effetti. Il Mental Coach naviga in questo mare per far capire ai naviganti in difficoltà che c’è una via d’uscita per tutti, ma che, proprio per questo, è necessario che tutti imparino a coltivare il terreno a volte incolto della natura umana, rispettando se stessi e gli altri, in un rapporto di reciprocità.
Dimitri, le parole sono molto importanti?
Le parole sono fondamentali, bisogna saperle soppesare, non vanno sovradimensionate, non devono diventare l’arma segreta della demagogia, strumento di castrazione fisica o mentale, devono aiutare a capire meglio la realtà che stiamo vivendo, quella che molto spesso ci impedisce di vedere chiaro in noi stessi e negli altri. Il problema è che spesso manchiamo di volontà, non troviamo il modo di essere veramente quello che vorremmo, che abbiamo sognato, abbiamo paura di essere noi stessi, di dire con cautela quello che pensiamo, quello che ci suggerisce il cuore. Viviamo in un mondo di stereotipi e di archetipi, siamo troppo spesso impediti da convinzioni assurde, ci lasciamo coinvolgere da quello spirito pubblicitario che celebra l’immagine, dimenticandoci che dentro a una persona ci sono un cuore e un’anima e che l’umano, prima di essere umano, è un essere. Credo che mai come in questo momento la nostra società abbia bisogno di bravi accompagnatori capaci di comprenderla e di capirla, orientandola verso obiettivi più rassicuranti.
Cos’è il calcio, oggi?
Un tempo era il gioco più facile, più semplice, facevi parte di un gruppo, della squadra del paese, oggi è diventato tutto più difficile. Molto spesso i genitori mi raccontano delle difficoltà che incontrano quando devono portar fuori i figli, allontanarli dalla play station, dai cellulari, dai computer e da tutto ciò che la tecnologia offre loro. Parlando con i miei ragazzi di Ispra ho detto con molta chiarezza: “ Non so cosa possiamo fare, andiamo avanti con la tecnologia zum”. Io non la sapevo usare, loro nemmeno, abbiamo deciso di fare un incontro la settimana di un’ora. Abbiamo iniziato raccontando storie, raccontando fiabe legate al calcio, abbiamo guardato su Internet, abbiamo scaricato, insomma abbiamo iniziato un viaggio. Questo modo di procedere ci è sembrato poco dinamico e alla fine ci siamo imposti di fare degli allenamenti, ma non sul campo, bensì in salotto, con gli attrezzi che incontravamo, abbiamo così cominciato a fare ginnastica motoria, lo scopo non era tanto la motoria, quanto quello di rimanere uniti in gruppo. Più volte ci siamo detti “Siamo quattro allenatori e sei bambini, cosa possiamo fare?”. Mollare sarebbe stato irrispettoso, ci siamo imposti di proseguire ugualmente per offrire un servizio ai bambini. Non avremmo avuto un compenso per quello che stavamo facendo, ma abbiamo voluto andare fino in fondo, con l’apprezzamento anche di chi non aveva partecipato. Fare del bene alla fine ripaga sempre. Oggi manca proprio quella voglia di sognare un po’, di divertirsi, di giocare. Io andavo all’oratorio, avevo otto anni e trovavo quelli di dodici, si giocava tutti insieme. L’oratorio è stato una grande palestra educativa, c’erano tanti ragazzi, c’erano quelli che non avevano voglia di far niente, ma erano di più quelli che avevano voglia di fare una partita, di sentirsi impegnati, di immedesimarsi in uno dei giochi più belli al mondo. Credo che il problema di oggi sia proprio quello di tornare alle cose semplici, quelle che pagano, che ti fanno sentire bene, che ti riconciliano con il mondo che ti ruota attorno. Le persone che vengono da me, ad esempio, non vogliono più qualcosa, vogliono uscire da una situazione che è diventata complicata e non sanno come fare per vedere chiaro davanti a sé. Il problema, nella maggior parte dei casi, è come sostituire il vecchio, come trovare una strada, come dare un nuovo senso alla loro vita, su cosa puntare, è in queste situazioni che il lavoro del Mental Coach diventa complesso, ma umanamente affascinante. Il calcio purtroppo è anch’esso vittima di questo tipo di società, ha bisogno di rigenerarsi, di ritrovare quella dimensione di umanità che l’ha reso uno dei giochi più amati.
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