Le donne in politica (ma anche in tutto il resto) si dice siano “un valore aggiunto”. Un’ovvietà che può essere una trappola. Se grattiamo sotto la superficie di questo modo di dire, il grosso del valore ce lo mettono i maschi, le donne portano, dopo, quel mattoncino che fa la differenza e alza il valore; ma senza la massa aggregata dai maschi, l’apporto delle donne non sarebbe rilevante.
A maggior ragione questa insidia è un rischio reale quando la politica declinata al maschile è intesa come un consorzio, mentre le donne sono una protesi e non a loro volta un fondamento, il nucleo, l’origine. Anche i concetti di parità di genere e le “quote rosa” nascondono insidie, benché siano entrambi meno ovvi e scontati. Non è tanto il presupposto dell’uguaglianza a mettere in valore la differenza, quanto e soprattutto il contrario: il presupposto della differenza genera, o facilita, l’uguaglianza, e solo dopo la consuetudine con l’uguaglianza consolida il ruolo della differenza e suscita un’osmosi, quell’interscambio che rende possibile il mutuo equilibrio dei generi.
Ma vi è di più: la messa in valore della differenza del ruolo delle donne come premessa e fondamento del vivere, non genera solo la loro emancipazione dal dominio (oggi soltanto tutelare) dei maschi, ma agevola l’emancipazione dei maschi da sé stessi in quanto portatori del dominio grazie a un consorzio più omogeneo, più forte e più immerso nei processi decisionali del corso delle “cose grandi”. Il macrocosmo sociale dei “tutti”, proprio di un universalismo astratto, si pone al di sopra del microcosmo familiare e particolaristico del “noi”, dove alle donne è da sempre riconosciuto il ruolo di governo della casa, dei figli e della quotidianità, il loro compito di custodia e riproduzione del “mondo della vita”.
Fino a quando la “comunità” è stata maschile, le donne ne sono rimaste un’appendice periferica, una base e una radice invisibile. Nel momento in cui, storicamente, la comunità ha iniziato a divenire davvero di tutti proprio per l’impulso collettivo delle donne alla liberazione, le donne hanno rivendicato un ruolo autonomo e peculiare. L’odierna crisi generale della vita sul pianeta, la devastazione della vita e delle sue condizioni, sono il prodotto efferato della logica maschile del dominio, del possesso sugli oggetti (inclusi gli oggetti umani sottoposti allo sfruttamento e alla reificazione) e del profitto come accumulazione di beni. Le donne, storicamente impegnate nel miglioramento della vita nel suo solo elemento autentico – gli affetti, le relazioni, la comprensione, la condivisione, la serenità e la pace nel convivere in una prossimità che si espande al macrocosmo con il crescere del tessuto delle interdipendenze – divengono così il perno di una via d’uscita, per quanto ancora possibile, dalla crisi planetaria e dalla catastrofe ambientale che avanza irrefrenabile giorno dopo giorno.
Paradossalmente, la sete di dominio competitivo che ha generato la globalizzazione ha espulso la politica dalle dinamiche decisionali. Bezos o Zuckerberg, l’oligarchia finanziaria americana e l’oligarchia industriale cinese, contano molte volte di più di Biden, Putin, Macron, Merkel, Draghi messi insieme. La politica è molto meno di una volta un percorso decisionale, possibilmente democratico, e sempre di più un ruolo di facilitatore dei poteri globali reali in continua tensione tra loro nei “mercati”, con risultati tanto più “efficienti” quanto meno la facilitazione discende da processi democratici. Questo percorso paradossale porta a un ulteriore sviluppo altrettanto imprevisto: i maschi abbandonano la politica come vocazione professionale, lasciandola a maschi mediocri, avventurieri o demagoghi, retori in perenne caccia di legittimazione nel voto.
Il collasso della qualità della politica associato all’urgenza di un agire imperniato sulla cura della vita lascia un grande spazio alle donne, alla loro diversità di postura logica ed emotiva primaria.
Il futuro del pianeta è in mano loro, dacché il pianeta dominato dai maschi è finito in un pantano di feci maleolenti. Non per nulla la principale novità sullo scenario globale è stata l’entrata in scena di una adolescente, Greta Thunberg, che si è fatta paladina di una rivoluzione nello stile di vita, pretendendo per i giovani, oggi espropriati del domani e condannati a un futuro indesiderabile, un ruolo di protagonisti. Greta, una giovane donna che ha conosciuto su di sé le difficoltà e le sofferenze delle adolescenti nell’accesso al mondo adulto, è divenuta non già la leader di un movimento globale al momento non maturo anche se necessario, ma la voce femminile che reclama la possibilità di un altro mondo e di un altro vivere.
Pensare globalmente, lo sappiamo, significa agire localmente, in una crescente sintonia tra le spazialità che è possibile solo evitando di precipitare nel pozzo nero del localismo (campanilistico, regionalistico o nazionalistico il risultato non cambia). Le donne possono diventare il sale della politica locale, in particolare quella amministrativa del governo delle città, il luogo e la forma della comune esistenza, il territorio che esalta la cura, la cooperazione, la ricerca confidente dell’intesa, l’attenzione alla reciprocità, la sensibilità per l’equità e per la tutela dei deboli, il contrasto all’atomizzazione che recinta, esclude e subordina in un cieco egoismo, e insieme il fare senza fronzoli, senza ricami verbali che suscitano il sentire attraverso la retorica – il male della democrazia fin dall’antica Grecia – e non attraverso la tessitura reciproca che pretende poche, ma appropriate e ponderate parole.
Le donne sono favorite in questo compito rigenerativo dalla loro millenaria esclusione dalla politica come potere. Le donne sono impolitiche: non neutrali o virginee come vestali, non indifferenti, ma portatrici di valori che stanno e lavorano in profondità, là dove la politica (maschile) è suolo su cui si elevano strutture fini a se stesse senza badare ai fondamenti, e che immettono nell’agire civile di tutti. I maschi sono invitati a femminilizzarsi non perché vanno dal parrucchiere unisex o badano al look o fanno andare la lavapiatti e stanno attenti a non mescolare la lana, il cotone e i colori nella lavatrice, ma perché si sentono coinvolti da questo ritorno alle ragioni e ai significati della vita.
Frequentando la scuola delle donne, i maschi non sono affatto sminuiti o messi in competizione. La vita è sempre un apprendimento di mondi. Nella convivenza familiare questo apprendimento, almeno nei ceti più istruiti, c’è stato, un po’ meno nei retrostanti ambiti dei sentimenti, della sessualità e dell’attenzione ai figli. Ma finora è mancato quasi del tutto nella convivenza politica, quella più lenta e refrattaria a recepire i cambiamenti.
È per questo che, negli ultimi mesi della mia tormentata vita pubblica a Varese, darò una mano alla lista di PratiCittà, messa in piedi da donne che rifuggono le devastazioni del personalismo leaderistico applicato a un autoproclamato “civismo” di tipo proprietario, etichetta che si pretende monopolistica e che si vota, come è stato, al fallimento. Donne impolitiche che vogliono cambiare, proseguendo un cammino intrapreso per imprimervi un’accelerazione specifica relativa alla qualità della vita a partire dai suoi fondamenti che affondano nei versanti femminili.
“Che ne è della vita in questo vivere?”, si chiese Friedrich Nietzsche, che con Lou Salome tentò, prematuramente, una ricerca di comunanza discorsiva ed emotiva tra gli apporti di genere, mettendo in crisi ogni schema tradizionale. È una domanda troppo onerosa per la sfera privata, ma si stempera nella vita pubblica, che a questo livello è più semplice.
Ma avrò modo di tornare su questa promettente esperienza in corso e in evoluzione nel prossimo articolo.
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