Se è quasi scontato che nessuno – e non solo lombardo – osi esclamare: Carlo Porta, chi era costui, forse non è così scontato che si ami e si apprezzi fino in fondo il grande poeta milanese. Giustamente un articolino dell’11 giugno del Corriere della Sera l’ha definito “voce immortale della nostra letteratura alta”. Giusto riconoscimento dopo anni di fraintendimenti con riduttive considerazioni circa la sua comicità dialettale. Meritata definizione per un poeta certamente dialettale ma unico per la sua satira amara di grande denuncia contro gli egoismi e le meschinità dell’aristocrazia, ricca ma vuota, e del clero del suo tempo. Rappresentazione dal basso, magari di piccoli vizi ma causa di peccati più grandi. E il cosiddetto anticlericalismo non è mai ateistico, ma è denuncia civile contro comportamenti gretti e opportunistici che offendono la sincera religiosità, come quella portiana.
Il bicentenario della sua morte, come spesso capita per le celebrazioni, è un’ottima occasione per studiarlo e per farlo conoscere meglio. Gli omaggi non mancano: numerosi e tutti interessanti. Per dovere di cronaca si devono ricordare i tre incontri online organizzati già a marzo dalla fondazione Ambrosianeum e dalla Società Dante Alighieri. Incontri da ascoltare su Youtube anche per risentire la bella voce della cantautrice Elide Suligoy che negli anni Settanta fece sentire la sonorità linguistica del sciùr, anzi sur, Carlo in un interessantissimo album musicale intitolato “Il mio Carlo Porta”.
Più di recente, il 27 e il 28 maggio, un convegno scientifico dell’Università Statale di Milano intitolato “On talent inscì foeura de misura” per valorizzare appieno il poeta. Davvero Porta fu un grande narratore in versi dell’Ottocento, capace di dare voce al popolo, dai ciabattini alle prostitute, persone vive e autentiche, spesso umiliate proprio dalla spocchiosa, retriva, ipocrita aristocrazia, incapace di cogliere i cambiamenti epocali, come la Donna Fabia Fabron de Fabrian, descritta nelle celebri sestine del componimento “La preghiera” del 1820. E dall’11 giugno, in prossimità del suo giorno natale, il 15 giugno, una mostra bibliografica al Castello Sforzesco, animata da letture registrate con memorabili interpretazioni, come quella di Dario Fo, che permettono di cogliere il magistrale utilizzo di tutte le risorse espressive del milanese, vero idioma e non solo dialetto. Sarebbe meglio dire che Carlo Porta, come nel componimento La preghiera, seppe scegliere la potenza del linguaggio, in una sapiente mescolanza di dialetto milanese e di italiano, qua e là infiorettato di vocaboli francesi, con intento satirico. Una satira intelligente in cui la rappresentazione narrata e non giudicante fa emergere proprio attraverso le scelte linguistiche la volgarità di certi stereotipi sussiegosi.
Veramente un poeta d’amare perché seppe colpire una certa classe sociale, la nobiltà austriacante (e non solo) sorda a domande di giustizia sociale e che – allo stesso tempo-seppe mettere in luce le pene, le fatiche di esistenze grame di poveri e diseredati. E forse ci fa capire a duecento anni dalla sua morte la boria di tante Restaurazioni, non solo quella dell’inizio del 1800. Le sue poesie sono da leggere, ma è da conoscere anche tutta la sua vita, che fu prova di coraggiosa coerenza fino alla morte prematura a soli quarantasei anni, debilitato da una malattia, la podagra, che sembra appartenere – già nel nome- quasi esclusivamente alla storia della medicina.
Fu coerente nella sua visione dal basso della società fin da primo componimento scritto a ventun anni, ‘El lavapiatt del meneghin che l’è mort”. Fu coerente nel sapere cogliere la forza della comicità, anche grazie alla sua esperienza di attore dilettante al Teatro Patriotico, che diventerà il Filodrammatico, di orientamento che oggi possiamo definire progressista. Osservatore, anche per il suo impiego in un ufficio di riscossione tasse, di quella umanità che faceva fatica ad arrivare a fine mese, senza rinunciare alla solida cultura giovanile che ebbe, forse solo per obbedienza nei confronti del padre. È abbastanza noto che nella sua casa si ritrovarono per discutere di letteratura e di attualità i grandi della cultura di quegli anni: Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi e Giovanni Berchet, per citarne alcuni. A Milano si respirava aria europea. Fece conoscere la città a Stendhal, fece capire la forza linguistica del dialetto a Gioachino Belli.
Per inciso il poeta romano non ebbe nella sua non facile vita la coerenza di Porta perché, pur ribelle e polemico, da censore – per esempio – vietò la rappresentazione del Macbeth di Verdi. Può sembrare una curiosa noterella a margine ma può anche farci pensare che anche nei luoghi in cui nasciamo c’è un destino. Porta nacque in contrada Sant’Andrea (contrada di conventi e di orti di sussistenza), ora nota per via Montenapoleone. Quel quartiere era noto come “ el Quartier de Riverissi”, soprannome attribuito in riferimento all’usanza dei milanesi di togliersi il cappello esageratamente in segno di deferenza verso le donne eleganti che passavano. Ma possiamo ben dire che Porta non cedette mai a nessuna forma di deferenza. Chissà perché si preferì attribuirgli, come nel monumento originario a lui dedicato nel 1867, grazie ad una sottoscrizione pubblica, la definizione di poeta bonario.
Certamente a noi non è più consentito questa limitante interpretazione. Anzi dobbiamo leggere quanto scrisse come testamento al suo figlioletto dove si leggono queste forti parole: Ho io così fabbricato quell’appuntato coltello… E noi sappiamo come possa essere appuntito il coltello della satira per una vera denuncia civile.
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