Anche Israele, l’unica democrazia del medio oriente, soffre di un “male sottile” dovuto all’eccessiva frammentazione dei partiti politici, polarizzata in modo identitario e avviluppata nelle spire del populismo che osanna un leader.
Non sono riuscito a calcolare esattamente il numero delle formazioni politiche presenti nella legislatura del 2020: ne ho contate dodici perchè il sistema elettorale proporzionale permette a due partiti di raggrupparsi per l’assegnazione dei seggi nella Knesset, il parlamento composto di 120 seggi. In meno di due anni gli israeliani sono stati chiamati alle urne ben quattro volte! Anche dopo la terza tornata elettorale, Benjamin Netanyahu, il leader del Likud, riuscì a formare un governo. Con una maggioranza di destra più i religiosi ultra-ortodossi si era assicurato solo la maggioranza relativa di 58 seggi, tre in meno della fatidica soglia di 61. La coalizione avversaria “Blu e bianco”, capeggiata da Binyamin Gantz, si era fermata a 40 seggi. Una fazione (una “corrente”, diremo in Italia) di “Blu e bianco”, capeggiata dal leader Gantz, accettò di entrare nel governo e il capo dello Stato diede l’incarico a Gantz. Dopo un sofferto accordo, nacque un governo di “unità nazionale” con la presidenza a rotazione: per diciotto mesi Netanyahu, per diciotto mesi Grantz.
E così iniziò nel 2020 il quinto governo Netanyahu, politico certamente capace, statista dal carisma di forti convinzioni, tessitore di relazioni privilegiate con “i grandi della terra”, segnatamente con Trump e Putin, ma uomo sbrigativo, rude, spregiudicato al punto tale da dover essere messo sotto accusa per corruzione, abuso di potere e malversazione da parte degli organi giudiziari israeliani, la cui indipendenza è segno della robustezza democratica delle istituzioni d’Israele. L’ardire populistico di Netanyahu arrivò al punto di pretendere che i magistrati chiamati a giudicarlo dichiarassero previamente di non essere “di sinistra”! A causa della mancata approvazione del bilancio entro il 23 dicembre 2020, la Knesset venne sciolta e furono indette le nuove elezioni che si tennero lo scorso 23 marzo.
La pandemia del Covid e le elezioni anticipate del 23 marzo scorso non permisero a Netanyahu di andare sotto processo. I risultati del voto assegnarono 52 parlamentari ai sostenitori di Netanyahu, 45 allo sfidante di sinistra Yar Lapid, nove alla formazione Shas guidata da Aryeh Deri, mentre altre piccole formazioni (tra cui la lista Araba Unita) si astennero nell’indicare un candidato Primo Ministro. Avendo il premier uscente ottenuto la maggioranza relativa, gli fu conferito dal Capo dello Stato l’incarico di formare il governo. Nel giro di consultazioni, Netanyahu non trovò la maggioranza disposta a sostenere il governo e l’incarico fu assegnato, allora, a Yar Lapid che sembra aver trovato il numero necessario di parlamentari per appoggiare un governo “di sinistra”, alleandosi con l’ex ministro della difesa del governo Netanyahu, Naftali Bennette. Nella coalizione ci sarebbe anche un partito arabo -israeliano. L’ira di Netanyahu è feroce: promette di “fare di tutto” perché la nuova maggioranza non possa governare. Attendiamo di conoscere il voto di fiducia al nuovo governo che, al momento, può contare su una maggioranza fragilissima: 61 voti su 120!
Per rendere impossibile a Lapid e del suo alleato Bennett di formare un nuovo governo e nel contempo essere gradita alla volontà del premier uscente di prolungare il proprio mandato, è partita dalla destra verso i palestinesi dei Territori Occupati e di Gerusalemme una vera aggressione: esproprio di case palestinesi, inedite misure restrittive alla Porta di Damasco, la mano libera lasciata a incursioni di bande di estremisti ebraici, violenti azioni repressive della polizia israeliana sulla spianata delle Moschee ed il triplice ingresso della stessa polizia in un’altra moschea.
Il fatto nuovo di questa crisi è che questa volta si sono ribellati i cittadini arabi contro cittadini israeliani, rivolta che ha portato la crisi al limite di una guerra civile. Di positivo, invece, è da notare che per salutare la fine delle ostilità si è svolta a Tel Aviv una grande manifestazione di israeliani delle due etnie per invocare la pace e la ripresa di un processo negoziale con i palestinesi.
Già, il processo di pace, quello che, secondo gli accordi di Oslo dovrebbe restituire sicurezza agli israeliani e ai palestinesi il diritto di esistere come popolo, entro confini sicuri e definiti!
Aldilà delle ragioni storiche che sono note, si sono aggiunti durante i governi di destra altri motivi di attrito, come gli insediamenti israeliani nei territori della Cisgiordania e la mancata concessione ai palestinesi e agli arabi israeliani di esercitare pienamente i loro diritti oggi conculcati in Israele e nei territori occupati. Dall’’altra parte bisognerà favorire la ricostituzione di una rappresentanza palestinese a Ramallah, città della Cisgiordania che “de facto” è la capitale dell’OLP. La sproporzionata reazione di Hamas, il movimento islamico di protesta che nega l’esistenza d’Israele, con un lancio di razzi d’intensità e potenza mai viste, usata per reagire al lancio di missili da parte d’Israele, ha affermato il proprio ruolo di difensore non solo dei palestinesi, ma anche degli arabi israeliani.
Che fare per ristabilire una serena convivenza? Non sono un politologo, ma il buon senso mi dice che la formula “due popoli, due stati” è ormai logorata dopo più di settant’anni, quasi una giaculatoria ipocrita che si invoca ogni qual volta s’infiamma il contrasto. Forse bisognerà pensare ad un unico Stato dove convivono più etnie. La storia insegna che la tendenza a tentativi destabilizzanti di egemonia di un popolo su un altro presto o tardi fallisce. Ce lo fa sperare il nuovo governo israeliano che ha promesso di “lavorare per servire tutti i cittadini d’Israele, compresi quelli che non ne fanno parte [i palestinesi, ndr]. Rispetterà i propri oppositori e farà tutto il possibile per tenere unite tutte le componenti della società”. Un unico stato federale? Se prendiamo coscienza che gli estremismi portano solo a immaginabili livelli di violenza, potrebbe essere possibile seguire questa strada e tentare di evitare che il peggio accada.
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