Se si entra in una libreria locale e si chiede dei libri di Giorgio Orelli, la risposta è: sono libri da ordinare e alcuni sono fuori catalogo. Nessun libro di poesie, come la raccolta Né bianco né viola del 1944, neppure Spiracoli, cioè Spiragli, del 1989 o Tutte le poesie, Oscar Mondadori del 2015. Nessun saggio. Lui, laureatosi a Friburgo sotto la guida di Gianfranco Contini, fu un critico accurato, capace di prendere per mano il lettore per portarlo nei giardini luminosi o nei labirinti più oscuri della poesia. Esemplificativi alcuni suoi saggi, come Foscolo e la danzatrice, commento ai limpidi versi da Le Grazie, attualissimi, che sembrano dedicati alla celestiale Carla Fracci, della ottima ma scomparsa casa editrice Pratiche o La qualità del senso: Dante, Ariosto e Leopardi.
Un critico con la dote non comune di far capire e di farsi capire. Apprezzato traduttore dal tedesco ma attento alla letteratura italiana. Memorabile è ancora il suo commento del 1965 per l’Inferno di Dante. Preso atto che a otto anni dalla sua morte in libreria non è facile trovare i suoi libri, inevitabilmente si fanno tante considerazioni.
Orelli, ticinese, nato il 25 maggio 1921, è un poeta, un grande poeta del Novecento, ma – si sa – la poesia è cultura di nicchia. Amare la poesia è quasi metafora di certi amori: intimi, segreti, discreti, esclusivi, elitari. È evidente che anche gli anniversari sono antidemocratici, con omaggi differenziati. Magari è giusto così, in tanta omologazione culturale. Certamente non è giusto che ci siano ancora i frontalierati culturali, fatti di confini e di limiti. Grandi, e più che giustificati, omaggi al poeta da parte dei mass media ticinesi. Sembra, invece, lontanissimo il premio alla carriera assegnatogli nel 2001 a Varese dall’Associazione Amici di Piero Chiara. Rileggere quella menzione dovrebbe far venire voglia di apprezzare i suoi versi.
“Giorgio Orelli – secondo quella motivazione – è una delle voci più alte, interessanti e complesse della poesia contemporanea. Una voce che non ha mai rinunciato al proprio timbro, pur toccando una ampia varietà di registri”. Nei suoi versi liberi, prevalentemente lunghi, appaiono – come nella poesia “ A mia figlia, sulle capre”- in una magica alchimia toni colloquiali e prosastici accanto a suggestioni letterarie, quasi petrarchesche. Ricca era la cultura letteraria di Orelli: Petrarca e Dante riecheggiano spesso con discrezione nei suoi versi. Immagini che fluiscono con un ritmo in cui anche la libertà metrica si fonde quasi con naturalezza con la cadenza del verso– principe della metrica italiana, l’endecasillabo. Si respira spesso nei suoi componimenti l’amore per la terra natale. Lui nativo della Val Bedretto, la valle solcata dal Ticino, la valle dei boschi di betulle, secondo l’etimologia, sa, però, dare – come un vero poeta- una dimensione che va oltre il localismo. Ed ecco che nell’affermare che “no che non sono cattivose le capre di Dalpe” porta il lettore (o l’innamorato della poesia) come “una anima vagabonda con la voglia ingorda” nella briga della vita”.
Gli addetti ai lavori sanno che nel 1952 il critico Luciano Anceschi pubblicò una antologia di sei poeti, Vittorio Sereni, Luciano Erba, Roberto Rebora, Nelo Risi, Renzo Modesti e Giorgio Orelli. Intitolò quella raccolta, Linea Lombarda. Anceschi individuava in quei poeti una ispirazione comune, che si opponeva all’ermetismo e al suo linguaggio criptico, quasi magico, e che- soprattutto- erano caratterizzati da una adesione all’esperienza vissuta e a un rigoroso atteggiamento morale, mai giudicante, talvolta ironico verso la realtà. Un verso esemplificativo proprio di Orelli: Vedi i topi andarsene compunti dal Centro Storico verso il Governo?
Se quella Linea non fu e non è sempre facilmente definibile e nettamente tracciabile (indimenticabili restano, comunque, gli studi del varesino Dante Isella), il ticinese Orelli, amico del luinese Vittorio Sereni, è un testimone significativo. Anzi esemplare. E forse potrebbe anche farci capire che la poesia non debba essere solo elitaria e permetterci di smentire un pensiero di Andy Warhol… la fama, o il ricordo, dura 15 minuti. Affermazione provocatoria ma che gli anniversari antidemocratici tendono a renderla molto realistica. È vero che Giorgio Orelli ci ha insegnato che anche il buio può essere buffo. Importante che il buio non sia l’oblio...e che la cultura non conosca frontiere.
You must be logged in to post a comment Login