Il Giro d’Italia ha sempre il suo fascino e lo ha per diversi motivi, di natura sportiva soprattutto, ma anche culturale. Si legano infatti a lui l’ambiente, il paesaggio, la cucina, il racconto, i ricordi, la storia, l’architettura, l’arte e la scultura. Seguire il Giro è un po’ come immergersi nella bellezza di un paese che non finisce mai di stupire e che ha la straordinaria capacità di sorprendere e di meravigliare, di unire all’interesse per il ciclismo, quello per la nostra storia, affidandosi al commento e a una lettura che passano, tra una pedalata e l’altra, attraverso borghi e sobborghi di rara intensità pittorica, umana e folkloristica.
Il Giro di quest’anno ha colto nel segno e lo ha fatto con la disponibilità di un paese sempre pronto a riabilitarsi, a voler dimostrare quello che realmente è in ogni momento della propria storia, soprattutto quando le difficoltà sembrano insormontabili. Nonostante la pandemia l’organizzazione ha girato a novanta, dimostrando quanto sia lecito vivere e convivere nel rispetto delle regole, affidando al buon senso e al senso di responsabilità delle persone la buona riuscita di una manifestazione sportiva tra le più belle e seguite in Europa e nel mondo. Un Giro alla grande dunque, che ha riservato nobilissime sorprese, sia sul piano dei risultati sia su quello delle caratterizzazioni umane, quelle che colorano e profumano di unione, solidarietà e allegria il carattere di un popolo capace sempre di riqualificarsi anche dopo drammatiche e pestilenziali pandemie.
È stato il Giro del carattere e della collaborazione, dei campioni e dei gregari, di atleti che hanno dimostrato sul campo quanto sia importante essere uniti e solidali e come sia fondamentale saper rivestire i panni del capitano quando la sorte cambia le carte in tavola e diventa necessario allargare le responsabilità. Un ciclismo di tutti, capace di dimostrare i suoi valori, soprattutto quelli che a volte passano inosservati, immersi come sono nell’euforia di una comunicazione che in alcuni casi privilegia i grandi e abbandona per strada i “piccoli”, quelli che non si vedono, ma dai quali dipendono la forza e l’armonia di una costruzione solida, capace di reggere il confronto con un mondo dinamico e mai domo.
È stato il Giro di Egan Bernal, il “capo” colombiano amatissimo in Italia, nato e cresciuto sportivamente in un paese, il nostro, sempre pronto a stendere un tappeto rosso a chi se lo merita, a tutti coloro che dimostrano sul campo di saperlo amare, rispettare, aiutare, condividere. È stato il Giro di Vincenzo Nibali e di Damiano Caruso, due siciliani capaci di scrivere pagine stupende di umanità, di forza e di coraggio, quello di Alessandro De Marchi, il gregario capace di sorprendere e di regalare una vittoria unica per la sua bellezza.
È stato soprattutto il Giro di Filippo Ganna, il Campione del mondo del mondo delle cronometro, l’uomo macchina che il giorno dopo, smessi i panni dell’eroe superdotato, torna a essere il fidato gregario di Bernal, tirando il treno della Ineos proprio come un treno, con la netta convinzione che la legge sia uguale per tutti e che la vittoria finale stia nella forza e nella coesione della squadra. È stato il Giro degl’italiani, di Bettiol, Cimolai, Fortunato e di tanti altri che con il loro impegno e la loro professionalità hanno colorato di rosa la passione della gente comune, quella che ama il ciclismo, questo ciclismo, così aperto, umile, onesto, così straripante di umanità e di dolcezza, di coraggio e di legalità, ma è stato anche il Giro raccontato da una RAI straordinariamente brava, capace di trasformare l’impresa in leggenda e la corsa in una bellissima lettura di arte, ambiente, sport e cultura. Un Giro che rimarrà nella storia, per aver saputo rispondere con tutto se stesso alle aspirazioni di un popolo deciso a riprendersi tutto quello che una maledetta pandemia ha sottratto.
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