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Cultura

CAPITALE INTELLETTUALE

ANTONIO MARTINA - 27/05/2021

olivettiChiudo la mia narrazione sulla Olivetti, sviluppata nei due articoli precedenti, stralciando alcune note da un’intervista rilasciata qualche anno fa dall’ingegnere Carlo Ronca, ex dipendente di Olivetti che, da giovane torinese, scoprì Ivrea e lì rimase. Lo intervistai perché conduceva le ricerche sui temi dello sviluppo d’impresa e di comunità alla Fondazione Olivetti di cui era Presidente la figlia di Adriano, Laura. Eravamo nell’ufficio che fu quello dell’imprenditore, in una splendida giornata primaverile che mi fece apprezzare la bellezza del panorama e del parco della collina su cui sorge la vecchia casa di famiglia. Ecco, quindi, le sue considerazioni in risposta ad alcune mie domande.

Sono trascorsi più di 50 anni dalla perdita di Adriano Olivetti e poche persone si ricordano dello spessore e dell’esperienza che un imprenditore come lui ha sviluppato e lasciato al nostro Paese, come mai?

Due anni fa sono stato invitato dal fondatore di un’azienda che si occupa di ambiente in provincia di Rimini, a partecipare ad un incontro allargato con i suoi diretti collaboratori, dipendenti e familiari. La sua esperienza, certamente di successo, gli ha consentito di raggiungere, in pochi anni, livelli di eccellenza con 400 dipendenti. L’evento, deciso per far conoscere meglio le maestranze l’un con l’altro e avvicinarli ancora di più all’Azienda, è stato anche un’occasione per spiegare la storia di Adriano Olivetti. Nel mio intervento incentrato sulla storia dell’azienda di Ivrea, è stato sviluppato e discusso il tema della sua competitività, dei suoi processi d’innovazione e sviluppo, dei processi di miglioramento del suo territorio di riferimento da cui aveva certamente ricevuto molto, ma anche dato di più. Dico questo per ricordare quanto affermava anche Adriano: sono le persone che fanno l’azienda. L’elevata ed interessata partecipazione mi ha lasciato un po’ amareggiato perché ho constatato, come lei dice, quanto siano pochi coloro che conoscono Adriano Olivetti e per un motivo molto semplice: nessuno lo ha raccontato e pochi lo raccontano. A partire da Camillo che nel 1908 aprì la “fabbrica di mattoni rossi”, fino alla grande avventura internazionale, passando dalle tecnologie meccaniche alle tecnologie elettroniche, al salto nell’ambito dei grandi sistemi e dei grandi servizi, raggiungendo dimensioni impensabili. La gente mi ha chiesto soprattutto come fosse stato possibile che un’iniziativa tanto prestigiosa avesse trovato “terreno fertile” in Italia. Se ne discute di rado, eppure ci sarebbero molti esempi e comportamenti da recuperare e sviluppare, prima fra tutte la volontà di innovare e competere. Come premessa mi sembra di poter affermare che l’Italia non conosce questa storia e quindi non può amare Olivetti così come non ha amato la chimica e quello che la Montecatini faceva. Ancora un esempio, quello della FIAT, da un lato si chiedono investimenti e dall’altro si è contenti della sua “temporanea sconfitta commerciale sul territorio italiano”. Ecco, quindi, una prima riflessione sul nostro futuro: come sono le nostre grandi imprese? Come dovrebbero operare per creare ricchezza? Dobbiamo cercare le risposte più appropriate perché non c’è Paese che si rispetti senza grandi Imprese.

Come si può recuperare l’interesse per l’impresa? Possiamo provare a indicare qualche esempio positivo da proporre e magari ripercorrere?

Se consideriamo, per esempio, l’Impresa di Cucinelli, premiato come imprenditore olivettiano, possiamo notare che quando ci sono cultura del lavoro e competenze si possono riprodurre, in piccola scala, quanto imprese come Olivetti hanno fatto in passato in scala più grande. Nel Canavese ci sono delle realtà altrettanto interessanti. Abbiamo realizzato un censimento per capire se il sistema locale aveva assorbito il lascito della grande impresa e constatato che c’era stato un fervore di creazione di attività negli anni ’70, ‘80 e ’90; oltre il 50% era stato fondato da persone che avevano lavorato in Olivetti dove avevano imparato un mestiere e l’idea di un mondo nuovo. In molti casi reinterpretando le tecnologie di cui erano padroni in modo diverso. Quando smisero di fare la meccanica per l’elettronica loro riproposero quanto avevano appreso, uscirono dall’azienda e si misero a fare prodotti per altri mercati. L’eccesso di capitale intellettuale reso disponibile da Olivetti consentì l’evolversi di questi fenomeni. Per essere più visibili servono più capitali intellettuali; le piccole imprese potrebbero unirsi in questa “avventura per l’innovazione”, ma ahimè ciascuno pensa al proprio e in piccolo! La cultura prevalente è questa, manca il capitale intellettuale, gli aspetti cosiddetti intangibili. Anche la mancanza di una visione olistica, sia degli imprenditori che del sindacato, crea i problemi che oggi ci coinvolgono.

Per concludere ricordo che fino a poco tempo fa erano ben “149 i tavoli di crisi” e 200 mila lavoratori a rischio licenziamento. Solo per ricordarne alcuni: Ilva, Alitalia, Whirlpool di Napoli, punti di vendita Auchan e Sma verso Conad, Tirrenia, ex Embraco, Safilo e Adidas, stabilimento Bosch di Bari. Qualcuno osa pensare che sia causato soltanto dalla mancanza di aspetti intangibili tra cui il capitale intellettuale? Poi è arrivata la pandemia da Covid 19 e stiamo aspettando la grande spesa, tanti soldi per il grande debito ma a bassi costi. Il titolo è: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

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