Siamo lì, al caffè dell’imbarcadero affacciato sul Golfo Borromeo. Splende il sole, i battelli elettrici filanti a pelo d’acqua attraccano uno dopo l’altro, in arrivo dalle Isole: Bella, Madre, dei Pescatori. Il dehors termico, perimetrato da cristalli fumé, ha un cappello di tendaggi ocra e verde, che un sensore apre e chiude secondo la luce, i venti, le nuvole. Il robottino bianco, con due biglie nere a far da occhi, serve quel ch’è stato appena ordinato dagli smartphone dei clienti. Pochi i tavolini. Ce ne possono essere di più o di meno, basta che il gestore digiti un comando informatico e spuntano come funghi, attorniati dal numero di poltroncine funzionale agli avventori.
Di sopra, il maestoso Mottarone. Lo si raggiunge dalla piazzola lì accanto, con velivoli a due, tre, quattro posti. Guida automatica, meta precostituita. Seguono il tracciato dell’ex funivia in un continuo andirivieni. Sembrano piccole astronavi o grandi culle. Leggere, sicure, comode. Rosse come il pianeta Marte. Sono i successi degli algoritmi. O lagoritmi, dato il posto.
È un giorno di maggio. Vent’anni fa, sulla montagna di profilo morbido e imponenza severa, cadde un’improvvisa bomba. Era la cabina quasi arrivata sulla sommità, e poi scivolata giù d’improvviso contro l’ultimo pilone del percorso, a causa dello spezzarsi d’una fune e d’un freno disattivato. Incuria criminale. Morirono tutti i passeggeri, quattordici, tranne uno. Eitan. Aveva cinque anni, si ferì gravemente, lo guarirono. Perse mamma, papà, fratellino, bisnonni. D’origini ebraiche, abitava con la famiglia in Lombardia. Il giorno della tragedia, la gita sul Mottarone fu scelta per festeggiare l’uscita dalla pandemia, un’infezione da virus che aveva colpito ogni continente. Milioni le vittime.
Eitan venne accudito dagli zii Aya e Nirko, dai nonni, dai cugini. Studiò, s’aprì a nuove amicizie, rinacque alla vita. Perché tale non era qualificabile per lui la miracolosa salvezza d’allora. Dopo un ritorno in Israele, alle radici, rientrò in Italia essendogli rimasto nel cuore il richiamo di questo Paese. Aveva i colori della sua infanzia, il profumo dei suoi affetti, il battito del suo sentimento.
Il giovanotto che il caso ha insediato vicino a me è alto, flessuoso, abbronzato. Gli occhi celesti con le pagliuzze dorate, i capelli riccioluti, l’espressione generosa. Solo una rughetta, un minimo ìncavo, gli traversa la fronte: segnala il solco dello struggimento che Eitan indossa da allora, il mattino della tragedia. Veste una maglia rossa, i bermuda azzurri, le scarpe grigie ben allacciate. Curiosamente, lo stesso abbigliamento con cui fu trovato nell’estate del ’15 il piccolo Alan Kurdi, deposto dalla risacca del mare su una spiaggia siriana all’epoca delle migrazioni senza speranza. Aveva tre anni, Alan. Non poté più contare gli altri, sulle dita delle manine paffute.
Eitan sì. Ne ha venticinque. Si è laureato a pieni voti. Ingegnere biodinamico, una vocazione per la conoscenza dei misteri della natura. Più che la tecnica di governare le cose, l’intriga lo spirito che ne innesca le scoperte. È convinto che il senso di un’esistenza stia nella ricerca del mistero che la origina, la muove, infine la chiude. Qui al bar del molo ne colgo il nome perché pronunziato dalla fanciulla che l’accompagna -due lunghe trecce, occhialoni vintage, una fila di braccialettini ai polsi- e non resisto alla tentazione di chiedergliene l’origine. Cioè la storia. Lui con modi garbati dà evasione all’impertinenza. Seguono uno scambio di sguardi e il silenzio. Non c’è di più da capire sulla sua presenza qui.
Ho ormai tanti anni. Troppi. Qualche reperto di capello bianco, il bastone per reggermi, le palpebre che lasciano intravedere radi spiragli di quieta rassegnazione. È consolante scorgere Eitan che ha ripreso a braccetto la vita, ne apprezza la compagnia, scala le rampe del mondo, comprese quelle da cui rotolò salvandosi grazie al gesto eroico del papà che col corpo gli fece da corazzato guscio. Ecco l’idea, chissà quanto vera in una consumata senilità, che la sosta dell’ex bimbo al caffè dell’imbarcadero sia successiva a una sua ricognizione Lassù.
Quando se ne va assieme alla ragazza, calcando la passerella mobile che l’imbarca sul battello a silenziosa propulsione, gli mando un cenno di saluto. Non se n’accorge. Ma oggi, anno 2041, il progresso della scienza riesce a comunicare le pulsioni dell’animo umano attraverso onde misteriose. Sui monitor d’identificazione appaiono come raggi d’un blu eguale alla tinta antica del Lago Maggiore, e del cielo cui il Mottarone affida in custodia la sua arcana sacralità. Mi rincuora pensare che sia il raggio della pace: Eitan prima o poi lo vedrà.
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