Da tempo non mi avviavo per il sentiero che dal Campo dei Fiori conduce al Forte d’Orino.
Se ricordo bene, da prima del lockdown 2020. Ma resto incerta sulla cronologia, poiché nei mesi dalle giornate troppo uguali il senso del tempo ha assunto altre modalità di funzionamento.
La prima tappa della camminata è lo spiazzo antistante il cancello d’accesso all’Osservatorio.
Lì il camminatore, sia quello occasionale sia l’abitudinario, si ferma per rivolgere lo sguardo allo scenario delle colline moreniche del Varesotto, dove lo specchio dei laghi nelle giornate di tempo incerto muta dall’azzurro al grigio metallico.
Lo spettacolo suscita, non credo solo a me, la stessa meraviglia che aveva fatto esclamare parole di sincero entusiasmo al viaggiatore ottocentesco Stendhal sui nostri luoghi.
Anche se è uno spettacolo visto tante volte, questa volta gli occhi hanno registrato delle emozioni nuove.
Le stesse che si provano quando si torna in un luogo familiare dopo un’assenza di anni: come se l’occhio rilevasse ciò che il cuore e la mente hanno conservato e idealizzato durante la lontananza.
Quante volte abbiamo sentito, anche a sproposito, affermare che la bellezza sta negli occhi di chi guarda, ricorrendo a citazioni più o meno spurie attribuite a Hume, a Goethe, a Wilde, a Gide. O riandando alle battute di un film melenso.
Ma qui, nello spiazzo che si apre sul monte Campo dei Fiori, si riesce a percepire fisicamente che il bisogno di una bellezza serena e pacificata emerge negli occhi di chi guarda e si sente rispecchiato nel paesaggio.
Mi viene da definire “contemplazione” lo stato d’animo provato durante questa breve sosta prima di incamminarmi verso il Forte. Contemplare, con gli occhi che hanno sperimentato la pandemia, che hanno sostato troppo a lungo sui paesaggi intorno a casa, che sono rimasti fissi sullo schermo del PC o della TV alla ricerca delle ultime notizie; che hanno letto distrattamente le pagine di un libro aperto controvoglia.
Ciò che stava riempiendo il mio sguardo in quel momento era uno spazio nuovo, quello ritrovato e riscoperto al momento dell’uscita, nel “dopo”.
Gli occhi sono ora più pronti a cogliere le sfumature del verde novello o la disposizione dei borghi e degli insediamenti umani, non solo per riconoscere i luoghi bensì per assorbirne la luce.
La parola contemplazione mi si è presentata con naturalezza, come se l’atto del contemplare fosse per me un’azione consueta.
Contemplavano i sacerdoti dell’antica Roma quando volevano conoscere il futuro, tracciando in aria uno spazio rettangolare che stava a delimitare una sorta di palcoscenico celeste, dentro cui si osservava e interpretava il volo degli uccelli. Creavano una porzione di cielo, il “templum”, dentro cui passare dalla lettura del presente a quella del futuro, dall’infinito al finito.
Ecco il paesaggio ai piedi del Campo dei Fiori divenire una fetta di cielo da contemplare, uno spazio per riprendersi il tempo necessario per riattivare il contatto con se stessi, per riconoscersi di nuovo vivi e grati alla vita.
Contemplare ispira pensieri lievi, niente di grandioso, niente che riguardi la ripresa della corsa al fare.
Ha sfilacciato il pensiero alimentato nei mesi delle chiusure: da dove ricomincerò “dopo”? Che cosa farò, quali attività, sociali e politiche vorrò recuperare e rimettere in moto. Ha ridimensionato la sensazione che a volte mi assale del non essere e del non fare mai abbastanza.
Contemplare, cum-templare, osservare attraverso lo spazio del “templum”, quello spazio delimitato, per coltivare la dimensione della lentezza, del fermo immagine, e provare a riprendere fiato.
Un lenimento omeopatico che può curare gli strappi indotti dalla pandemia.
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